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E adesso preoccupa il virus
che fa strage di conigli

Mentre ci si interroga ancora sull’origine del Covid-19, chi segue le infezioni negli animali e le possibili fonti di spillover (salto di specie) ha una nuova preoccupazione: quella causata da un virus che si sta diffondendo molto velocemente nei conigli selvatici (e non solo) in Nordamerica, e che negli anni scorsi ha già dato luogo a epidemie allarmanti.
A raccontare questa vicenda è la rivista scientifica Science.  Il reporter Erik Stokstad riferisce che la prima comparsa del virus, chiamato “virus della malattia emorragica dei conigli" (in inglese rabbit hemorrhagic disease virus, o RHDV), si è avuta negli anni ottanta in Cina e in Europa, ed è stata seguita da altre epidemie catastrofiche in Australia, dove la popolazione di conigli selvatici è enorme.
Poi, dopo ulteriori piccoli focolai controllati, nel 2010 la malattia è ricomparsa in Francia, estendendosi successivamente in altri Paesi europei. E questa volta il virus, mutato, e chiamato perciò di tipo 2, ha assunto diverse caratteristiche particolarmente preoccupanti. Il nuovo ceppo si è rivelato infatti meno letale per gli animali adulti ma, a differenza di quello originario, mortale per i cuccioli: in Spagna e Portogallo, dove si era diffuso in quegli anni, ha causato la morte del 60-70% della popolazione dei conigli selvatici. Inoltre la mutazione gli ha conferito una estrema facilità nel compiere i salti di specie e, grazie a questo, RHDV ha ucciso anche il 45% delle aquile imperiali e il 65% delle linci iberiche, cioè dei predatori dei conigli che, mangiando carne infetta, si sono ammalati.

Il quadro, già abbastanza serio, è aggravato da ulteriori peculiarità di entrambi i ceppi: oltre all’elevatissima contagiosità, entrambi i virus, a RNA, persistono nell’ambiente e sopravvivono negli animali morti per almeno tre mesi; predatori che si cibano delle loro carcasse possono dunque agire da vettori attraverso le loro deiezioni.
Per questo ben si comprende come ci sia grande allarme, soprattutto nell’America del Nord, dove RHDV2 è arrivato nel 2015 e dove in 18 mesi ha raggiunto molti stati, da quelli del Nord fino alla California.
La prima segnalazione ufficiale del virus avviene nel 2018, in Canada, e riguarda i conigli domestici. Poco dopo è la volta di tre stati degli USA, sempre in conigli domestici, ma anche selvatici. Poi, a sorpresa, il virus ha raggiunto alcuni degli stati del sud. In particolare, Science racconta di un coltivatore del New Mexico il cui cane, un golden retriever, nel mese di marzo del 2018 trova un coniglio infetto, nel deserto. Di solito – riferisce l’uomo – il suo cane non provava neppure a inseguire i conigli, perché sono troppo veloci. Ma quell’animale va molto piano, probabilmente perché malato, e il cane lo cattura. Nel giro di poco tempo l’uomo trova 18 carcasse di conigli morti in mezzo chilometro quadrato.
Da quel momento, veterinari e autorità sanitarie, in allerta, iniziano a ricevere segnalazioni sempre più numerose di episodi analoghi, e ciò che preoccupa è la vastità della zona colpita, interessata dall’infezione a una velocità mai vista con altri virus endemici, quali quello della tularemia.

In breve il Dipartimento dell’agricoltura statunitense (Department of Agriculture, in sigla USDA) sequenzia il virus e, appunto, capisce che è mutato rispetto al ceppo cinese di quasi quattro decenni prima. Il 5 maggio spedisce un rapporto all’Organizzazione Mondiale della Sanità nel quale ipotizza che il ceppo californiano sia diverso da quello inizialmente arrivato nella parte nord del continente e diffusosi poi in altri stati; la sequenza non è stata ancora resa nota, ma dovrebbe esserlo presto.

Intanto il National Wildlife Health Center (NWHC), che ha svolto le autopsie degli animali e preparato i campioni per le analisi genetiche nei suoi laboratori a elevato livello di biosicurezza (gli unici abilitati a studiare virus così pericolosi), allerta tutti gli stati affinché vigilino sulla salute dei lagomorfi, cioè dei mammiferi simili ai conigli quali le lepri, i conigli pigmei, quelli chiamati del vulcano, i cosiddetti pika, e altre specie locali, già minacciate di estinzione. Molto severe le direttive emanate: le carcasse di animali morti per RHDV devono essere bruciate, i resti seppelliti a non meno di un metro di profondità e ogni scoperta di feci miste a sangue riferita alle autorità.

Una delle preoccupazioni sulla possibile diffusione del virus aiuta a capire quanto tutto sia collegato: se infatti i lagomorfi non ci fossero più, i coyote, per i quali rappresentano la preda preferita, attaccherebbero il bestiame. Gli allevatori, per tenere lontani questi ultimi, dovrebbero usare il veleno. Le loro carcasse avvelenate, però, potrebbero uccidere i predatori-spazzini naturali quali le aquile e gli avvoltoi, fondamentali nel mantenimento degli equilibri di quegli ecosistemi.

Ciò che ora è urgente fare, per ora, è trovare fondi per finanziare la ricerca, scrive Science, soprattutto per il virus californiano. Non si sa, infatti, se esistano specie che possono costituire un serbatoio, nelle quali cioè il virus possa restare silente magari anni, per poi tornare a essere contagioso. Non si conosce con esattezza l’area di diffusione, né si sa quali specie siano interessate, di lagomorfi e non solo. Non si capisce anche quanto la variazione genetica abbia conferito ulteriori specificità a questo ceppo.
Nel caso dell’RHDV, comunque, la soluzione è meno sfuggente rispetto al Covid-19. In Europa esiste infatti un vaccino che viene somministrato ai conigli domestici, e anche se è impossibile pensare di darlo anche alle popolazioni selvatiche (anche perché viene somministrato per via iniettiva), ed è basato su virus vivi attenuati (fatto che comporta la coltivazione di grandi quantità di virus pericolosi), almeno è disponibile e potrebbe costituire la base per altre forme di vaccino, in caso di emergenze. Si sta cercando di renderlo orale, e se ci si riuscisse si potrebbe spargere con apposite esche anche per le popolazioni selvatiche. Lo hanno fatto nella penisola iberica, nell’ambito di un progetto costato 120.000 euro e iniziato nel 2018, le cui valutazioni finali sono attese per il 2021. Se il risultato sarà positivo, il vaccino orale per i conigli potrebbe essere in commercio entro due o tre anni, anche se c’è un ulteriore ostacolo non di poco conto da superare: nelle popolazioni domestiche il vaccino richiede un richiamo a sei mesi dalla prima somministrazione, il che rende il tutto costoso, e non facile da mettere in pratica.
Per questo alcuni esperti ritengono che la strada più efficace sia la prevenzione: bisogna evitare che il virus si diffonda, ha detto uno di loro, perché quando inizia a farlo è inarrestabile.

Data ultimo aggiornamento 27 maggio 2020
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • È il pangolino l’animale che ha “incubato” il Covid-19?



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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