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Due farmaci fanno sperare che la còrea
di Huntington si possa contrastare meglio

Una speranza. Coloro che si ammalano di còrea di Huntington, malattia neurodegenerativa, ereditaria e contro la quale non c’è alcuna terapia approvata, possono sperare, e confidare nel fatto che si arrivi presto ai primi farmaci. Lo studio denominato KINECT-HD, di fase III, appena pubblicato su Lancet Neurology, ha infatti mostrato risultati che autorizzano a essere ottimisti, almeno per quanto riguarda il controllo dei sintomi. In esso una molecola chiamata valbenazina, che blocca una proteina chiamata vesicular monamine transporter 2 o VMAT2, somministrata in alternativa a un placebo a 128 pazienti, è stata in grado di fermare la discinesia, il sintomo più tipico della malattia (un’agitazione motoria incontrollata), in misura chiaramente più significativa rispetto al placebo, dopo due settimane di terapia e senza effetti collaterali gravi; solo in due pazienti la tossicità è stata considerata più rilevante. Il farmaco attende ora la valutazione della Food and Drug Administration, prevista per agosto.

Ma la speranza arriva anche da un’altra molecola, più indietro, ma in questo caso non sintomatica, e diretta contro la proteina mutata all’origine della malattia, chiamata non a caso huntingtina. Il farmaco, chiamato per ora PTC518, somministrato per 12 settimane alla dose di 10 milligrammi, nelle prime fasi della sperimentazione clinica ha mostrato di poter ridurre significativamente, del 30%, la quantità di huntingtina, secondo quanto riferito dall’azienda che l’ha scoperta in base ai suoi dati preliminari non ancora pubblicati, senza effetti collaterali gravi.

Gli studi proseguono, e occorreranno numerosi approfondimenti prima di poter capire quali siano le conseguenze cliniche del blocco della proteina, ma finora nessun farmaco era riuscito ad abbassare stabilmente l’huntingtina. Anche per questo, la speranza è lecita.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 28 giugno 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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