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Dal Covid-19 alla prevenzione dei tumori:
il grande salto dei vaccini a mRNA

di Agnese Codignola

La possibilità di introdurre nell’organismo frammenti di RNA messaggero (mRNA) capaci di far produrre alle cellule una serie di proteine "bersaglio" che inneschino una reazione (e un meccanismo di "protezione") da parte del sistema immunitario contro determinati "nemici" è alla base della vaccinazione anti-Covid e di molte vaccinazioni attualmente allo studio contro altre infezioni. Le tecniche per veicolare efficacemente e in modo sicuro questo tipo di informazioni genetiche sta aprendo scenari finora considerati per definizione senza sbocco, come quello dei vaccini per la prevenzione dei tumori.

Eccezion fatta per quelli contro l’epatite B e il papillomavirus (infezioni che possono aprire la strada al cancro), i vaccini preventivi antitumorali sono stati esclusi categoricamente per decenni, come sancito anche da un famoso e duro editoriale di Nature di una decina di anni fa, rivolto contro un’associazione di malate di tumore al seno che chiedeva di proseguire questo tipo di ricerche. Di come si è arrivati alla svolta attuale ne parla Science in un lungo articolo dedicato alle ultime novità.

L’idea di giungere a una vaccinazione anticancro universale non è certamente nuova. I primi tentativi risalgono alla fine del XIX secolo con William Coley, un medico americano che sperimentò con qualche successo diversi cocktail di tossine batteriche. I tempi, tuttavia, erano del tutto prematuri: molti pazienti morirono a causa delle conseguenze delle infezioni provocate, che non potevano essere contrastate in alcun modo.

Solo nel 2013 si è scoperto che il sistema immunitario non reagisce a cellule così anomale come quelle tumorali perché la massa cancerosa è ben protetta dal suo microambiente e, soprattutto, esprime dei veri e propri blocchi specifici che possono silenziare la risposta immunitaria, i cosiddetti checkpoint. Da lì a capire come sbloccarli o come creare in laboratorio  linfociti geneticamente modificati per essere molto più potenti e specifici, il passo è stato breve. Sono così nate le terapie CAR-T e gli inibitori dei checkpoint. Quanto ai vaccini, lo sforzo ora è quello di impiegarli prima che l’organismo si ammali, incominciando dalle persone ad alto rischio per predisposizione genetica, o perché già curate per un tumore. La speranza è che la strada, così lunga finora, sia giunta quasi al traguardo.

Ma quali proteine tumorali si possono veicolare attraverso i vaccini a mRNA? Il primo antigene squisitamente tumorale è stato identificato nel 1989 dall’immunologa Olivera Finn dell’Università di Pittsburgh (Stati Uniti): si chiama MUC-1 ed è una proteina (associata a uno zucchero) che nei tumori si presenta mutata. Finn ha somministrato frammenti (peptidi) di MUC-1 a 39 persone a rischio che avevano già avuto polipi intestinali, e nel 2013 ha osservato una forte risposta in 17 di loro: una reazione molto più potente rispetto a quella ottenuta somministrando MUC-1 come terapia, dopo che i tumori si erano già formati. Gli altri 22 pazienti che non avevano risposto al trattamento, invece, presentavano nell’organismo diverse molecole dall’azione immunosoppressiva, probabilmente provenienti dai polipi precedentemente asportati.

Questi risultati hanno spinto gli oncologi a condurre uno studio più ampio, con un gruppo di controllo trattato con placebo, per verificare se il vaccino anti MUC-1 avesse o meno un’azione inibitoria sulla formazione di nuovi polipi o tumori in chi ne aveva già rimossi alcuni. Nella sperimentazione, però, solo 11 dei 53 pazienti trattati hanno prodotto anticorpi efficaci, e - di questi - 3 hanno sviluppato nuovi polipi nell’anno successivo, problema che si è verificato anche in 31 dei 47 pazienti trattati con il placebo. Il dato suggerisce quindi che il vaccino, pur avendo qualche efficacia, ha bisogno di "qualcosa" che potenzi la sua azione: gli studi sono in corso.

Altri gruppi di ricercatori, come quelli del Penn Medicine’s Abramson Cancer Center guidati da Robert Vonderheide, stanno studiando anche la somministrazione di DNA contenente le istruzioni genetiche per un altro antigene comune a molti tumori: si chiama hTERT e fa parte della telomerasi, un enzima che protegge i cromosomi durante la proliferazione tumorale. I primi dati, relativi a 93 pazienti a rischio di sviluppare diversi tipi di tumori, sono positivi: quasi tutte le persone trattate hanno sviluppato linfociti T specifici, come pubblicato su Journal of ImmunoTherapy of Cancer nel 2021. Inoltre, il 41% dei 34 pazienti trattati e affetti da carcinoma del pancreas non ha mostrato segni di ricaduta dopo 18 mesi: un dato molto incoraggiante, perché negli altri la malattia era riapparsa in media dopo 12 mesi.

Al momento, il team sta testando un vaccino su 16 persone con mutazione dei geni BRCA 1 o 2 (che predispongono al tumore del seno e dell’ovaio), mentre per l’anno prossimo ha in programma uno studio su 28 persone BRCA positive che non hanno mai avuto manifestazioni della malattia. Tuttavia con hTERT, espresso in alcune cellule sane, c’è un rischio: quello dell’autoimmunità, cioè di una reazione rivolta contro l’organismo.

Per aggirare l’ostacolo, Vincent Tuohy della Cleveland Clinic ha puntato su un altro antigene: la alfa-lattoalbumina, una proteina prodotta - nelle donne sane - solo durante la gravidanza e l’allattamento, ma che si trova anche nelle cellule del tumore al seno triplo negativo (una delle forme più aggressive e difficili da trattare). Al momento si attendono i risultati di uno studio condotto su 24 donne operate per questo tumore.
Sempre per il carcinoma mammario, alla Mayo Clinic di Rochester è allo studio un vaccino che unisce 6 antigeni, compresi MUC-1 e hTERT.

Altri studi, come quelli in corso alla Johns Hopkins University, stanno concentrando l’attenzione sui neoantigeni (marker presenti sulla superficie delle cellule tumorali, ma assenti nel tessuto normale) che si formano nei pazienti con tumore del pancreas con mutazione del gene KRAS: i primi 25 volontari, non ancora malati ma ad alto rischio a causa della mutazione di KRAS su base familiare, dovrebbero essere presto vaccinati.

Ci sono poi le sperimentazioni del vaccino per la sindrome di Lynch, una condizione genetica caratterizzata da mutazioni ereditarie che danno un’elevatissima probabilità (attorno al 70%) di sviluppare un tumore del colon retto: fin dall’infanzia iniziano a sviluppare polipi che, nel tempo, evolvono quasi sempre in lesioni tumorali. L’unica strategia che si può mettere in campo è quella di una sorveglianza continua e dell’asportazione delle neoformazioni via via che si scoprono, seguita eventualmente da chemioterapia. In questo caso, un vaccino peptidico messo a punto da un team tedesco ha mostrato di non comportare problemi di sicurezza: un primo passo importante.

Tuttavia c’è un tentativo assai più ambizioso in corso, portato avanti da Eduardo Vilar-Sanchez dell’MD Anderson Cancer Center di Houston insieme all’azienda italo-svizzera Nouscom: consiste nel veicolare virus modificati per portare le informazioni relative a ben 209 neoantigeni. L’idea è quella di fornire un "cocktail" affinché la risposta immunitaria dei pazienti sia soddisfacente al di là di come risponde dal punto di vista immunitario e da quanti neoantigeni esprime.

Il mix è già stato sperimentato come possibile terapia (insieme a un’immunoterapia anti-checkpoint) in 12 pazienti con tumore metastatico con mutazioni simili a quelle della sindrome di Lynch. Secondo i dati presentati nel 2021, in 7 di loro il vaccino ha portato a una netta diminuzione delle masse. Tutto ciò ha convinto i ricercatori a partire con la sperimentazione del vaccino in 45 persone con la sindrome di Lynch ancora sane o comunque in remissione, nella convinzione che l’effetto potrebbe essere assai più potente rispetto a quello visto in soggetti già malati. Se l’esito fosse positivo, partirebbe una fase successiva, con centinaia di pazienti trattati e poi osservati per almeno 5-10 anni.

Al di là dell’antigene prescelto, la tecnica su cui si punta è la stessa impiegata per i vaccini anti Covid, ossia l’inserimento delle molecole di mRNA in vescicole lipidiche, perché si tratta di un metodo più semplice rispetto ad altri (quali l’utilizzo dei vettori virali), perché la sicurezza è molto elevata (come accertato da diversi miliardi di inoculazioni anti Covid) e perché la risposta indotta è molto potente.

Gli Stati Uniti puntano su questo, come sottolineato in un articolo di Science che ha riassunto gli strumenti principali del progetto Moonshot: appena rilanciato dal presidente Joe Biden, tra l’altro attraverso l’Advanced Research Projects Agency for Health (ARPA-H) che finanzierà gli studi, mira a sviluppare un vaccino a mRNA con 50 antigeni tumorali. Un vaccino anticancro universale.

Data ultimo aggiornamento 9 giugno 2022
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: antigeni, Biden, cancro, checkpoint, pandemia, RNA messaggero



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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