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Così la tecnologia anti-Covid
viene studiata contro i tumori

La tecnica a RNA messaggero (mRNA), utilizzata per la messa a punto dei due vaccini per la prevenzione del Covid-19, Pfizer e Moderna, ha origini "antiche" che risalgono a più di due decenni fa. L’obiettivo iniziale era quello di trovare una cura per i tumori. Si è trattato di una strada lunga e complessa da percorrere e che, al momento, non ha trovato però un’applicazione pratica dal punto di vista oncologico. Ma certamente l’uso di questa tecnologia per far fronte alla pandemia con l’enorme mole di studi e ricerche  che ciò ha comportato, ha ridato concretezza alla possibilità di un loro futuro utilizzo come terapia per altre patologie, a cominciare, appunto, dal cancro.
Per comprendere meglio il percorso fatto fino a questo momento con le annesse difficoltà, e, soprattutto, per fare chiarezza su possibili sviluppi a breve, medio e lungo termine, abbiamo intervistato la professoressa Maria Rescigno, docente di patologia generale all’Università Humanitas di Milano, vicario del rettore e ricercatrice famosa in tutto il mondo per gli studi su tumore e microbiota (l’insieme dei microganismi "buoni" che vivono nel nostro intestino). 

Qual è il punto di partenza riguardo la tecnica dell’RNA messaggero? 
«Dobbiamo fare una premessa - risponde la professoressa Rescigno: - l’RNA è il precursore delle proteine (come si dice in termine tecnico), ossia il materiale genetico che trasporta informazioni del DNA all’interno delle cellule, "ragguagliandole" su come produrre le proteine necessarie all’organismo per svolgere compiti fisiologici e controllare l’espressione genica. Sulla base di questo presupposto, il sogno degli scienziati era quello di ottenere un vaccino terapeutico contro il cancro (sfruttando queste "capacità" dell’RNA, e dunque spingendolo a far produrre alle cellule una proteina capace di attivare una potente risposta del sistema immunitario contro il tumore, ndr). Pioniera nello sviluppo di terapie proteiche basate sull’RNA messaggero, già dagli anni Novanta,  è stata la biochimica ungherese-statunitense Katalin Karikò. La dottoressa Karikò ha contribuito a capire come fare a superare il problema legato all’instabilità dell’RNA. Bisognava infatti prolungare la sopravvivenza dell’RNA all’interno della cellula per permettere la produzione di una quantità di proteina sufficiente a scatenare una risposta immunitaria».

Come mai allora non si è arrivati alla formulazione di un vaccino terapeutico per i tumori? Quali gli ostacoli principali? 
«L’ostacolo principale è legato alla scelta dell’antigene (ossia della proteina da far produrre all’RNA per scatenare la risposta immunitaria contro il tumore, ndr): insomma, l’identificazione di una o più proteine tumorali che non sfuggissero al riconoscimento da parte delle cellule del sistema immunitario e che allo stesso tempo non scatenassero una risposta autoimmune, ovvero contro le cellule sane. L’ideale sarebbe stato individuare antigeni presenti solo nella cellula tumorale e non in quelle sane».

Questi ostacoli non stati invece riscontrati nella formulazione dei vaccini preventivi nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2, responsabile della malattia Covid-19? 
«In maniera significativamente minore perché, nel caso del virus, che è “un organismo” piuttosto primitivo, è infatti più semplice l’identificazione della proteina da scegliere come bersaglio (nel caso del Covid-19, la proteina Spike). Questa proteina non è presente nel nostro organismo e quindi il sistema immunitario è predisposto a riconoscerla come estranea. Nel caso dei vaccini contro il coronavirus, l’mRNA ha insegnato alle nostre cellule ad assemblare la proteina Spike che è la chiave con cui il coronavirus SARS-CoV-2 entra nell’organismo e lo infetta. La proteina Spike così assemblata è identica a quella del virus, anche se prodotta dalle cellule umane, e viene riconosciuta come estranea dal sistema immunitario che, a sua volta, produce anticorpi neutralizzanti in grado di bloccare l’infezione da parte del Coronavirus.
Anche dal punto di vista della risposta autoimmune non ci sono stati significativi problemi e il vaccino per il Covid-19, anche se realizzato in tempi molto brevi per far fronte alla situazione emergenziale dettata dalla pandemia, non ha saltato nessuna fase di studio ed è stato testato su una platea numerosissima, come non mai nella storia dell’umanità. È quindi efficace e sicuro». 

Come far fronte alle problematiche che non hanno permesso finora di giungere alla realizzazione di un vaccino contro il cancro? Quali vie percorrere?
«Le strade sono principalmente tre e si basano sul riconoscimento di più antigeni per evitare che una cellula, smettendo magari di esprimere una delle proteine usate come antigene, sfugga all’attacco che le viene sferrato dal sistema immunitario.
La prima "strada", in particolare, si basa sullo studio  completo delle alterazioni genetiche di ogni singolo paziente. La finalità è quella di giungere così alla realizzazione di un vaccino terapeutico personalizzato (costruito su misura per quel singolo paziente, scegliendo proteine-bersaglio che sono soltanto "sue", ndr). I risultati sono incoraggianti, anche se per adesso si tratta di una modalità poco sostenibile, sia dal punto di vista temporale, fattivo ed economico.
Il secondo approccio che stiamo perseguendo nel nostro laboratorio si basa, invece, sullo studio delle cosiddette cellule “stressate”, ossia di quelle cellule cancerogene caratterizzate da numerose mutazioni. In questo modo, identificando una sorta di comune denominatore, si potrebbero immunizzare le persone che si ammalano di un determinato tumore mediante un vaccino universale, per ora diretto a melanoma o sarcoma.
La terza strada, infine, è quella legata allo studio dell’espressione degli antigeni embrionali, ossia di quegli antigeni che non sono espressi nelle normali cellule adulte, ma solo in alcune tipologie di tumori». 

E gli sviluppi futuri? 
«Stiamo studiando l’approccio combinato tra vaccini terapeutici (ossia non preventivi come quelli  per il Covid-19, ma destinati a chi è già malato di cancro) e l’immunoterapia con i cosiddetti inibitori dei checkpoint immunitari, cioè un trattamento di cura che rivitalizza le cellule immunitarie del paziente.
Difficile, invece, pensare a una vaccino preventivo a mRNA per il cancro, perché i tumori sono causati da numerosi fattori (genetici, ambientali, stile di vita…) e non è al momento pensabile accendere una risposta immunitaria per un tumore quando ancora non esiste. Discorso diverso è invece quello relativo ai due vaccini preventivi che attualmente abbiamo a disposizione contro il cancro, perché partono da infezioni e agenti patogeni. Nello specifico sono: quello anti-epatite B, che previene non solo la malattia infettiva ma anche il tumore del fegato, ovvero una delle conseguenze dell’epatite cronica; e quello che protegge dall’infezione del papilloma virus umano (HPV), capace di innescare in alcuni casi i tumori della cervice uterina e altri tipi di tumore (testa e collo) che colpiscono donne e uomini».  

E quali i tempi? È possibile prevederli?
«È difficile rispondere, perché l’iter regolatorio è molto lungo e il percorso, seppur molto promettente, non ancora ultimato. Noi in Humanitas, insieme ad altri 8 gruppi di ricerca a Novara e a Napoli, abbiamo ricevuto un finanziamento dalla Fondazione AIRC per mettere a punto due vaccini contro il melanoma o il sarcoma, che verranno testati sull’uomo nel corso del progetto sperimentale. Abbiamo già identificato gli antigeni per il vaccino del melanoma e stiamo procedendo con l’identificazione di quelli del sarcoma».  

Data ultimo aggiornamento 16 ottobre 2021
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: coronavirus, Covid-19



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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