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Così i microrganismi hanno modellato l’evoluzione umana

Ricostruzione al computer di diversi tipi di batteri (foto iStock)

di Valeria Camia

Dimenticate i grandi eroi, o la presunzione che ci siano uomini e donne motrici del corso della Storia. Insomma, “lasciate ogni speranza voi che leggete”, si potrebbe scrivere prendendo in prestito, modificandole un po’, le parole del Sommo poeta, Dante. Il percorso evolutivo che ha portato noi discendenti dall’Homo Sapiens fino a oggi, a dispetto degli altri ominidi, non è legato solo a una migliore capacità di adattarci e di competere, grazie anche a continue innovazioni tecnologiche. Insomma, non siamo (stati) più intelligenti di altri, e non c’entra nemmeno la forza fisica. Se siamo qui lo dobbiamo a esseri invisibili, che hanno influenzato il corso dei secoli: i microbi. Sono loro i veri “modellatori” dell’Albero della vita. 

Questa, almeno, è la tesi del sociologo Jonathan Kennedy (foto a sinistra), articolata nel suo libro Pathogenesis (Bompiani editore), che argomenta il modo in cui otto ondate di germi (batteri e virus) abbiano influenzato, modificato, le vicende storiche: «Siamo parte di un sistema, un ecosistema, in cui i microrganismi patogeni hanno un ruolo fondamentale» - afferma l’autore del saggio, che si apre proprio ricordando a chi legge il numero totale dei virus stimato sul nostro pianeta: è 10 elevato a 31, ovvero 1 seguito da 31 zeri, 10000000000000000000000000000000 (un numero praticamente impossibile da immaginare), anche se “solo” 220 tipi di virus sono noti per essere riusciti a infettare il corpo umano. E se poi contiamo le specie di animali, piante e funghi, ci fermiamo a circa 8,7 milioni: «Pochissime, se pensiamo che di tipi di batteri e archeobatteri ne esistono un trilione» - scrive Kennedy, che insegna Politica e Sanità Globale al Centro per la Salute Pubblica e le Politiche Sanitarie della Queen Mary University of London.

Pensato e iniziato in tempo di Covid, Pathogenesis esplora, ad esempio, la possibilità che i nostri progenitori (Homo sapiens) - nomadi provenienti dall’Africa, i quali avevano acquisito forti sistemi immunitari durante i loro viaggi - possano avere “semplicemente” infettato (e decimato) i Neanderthal già presenti in Europa con un nuovo patogeno (proprio come i colonizzatori spagnoli, decine di migliaia di anni dopo, causarono la scomparsa della popolazione azteca con il vaiolo e non solo con le armi). E come spiegare la fine del Cheddar Man, cacciatore-raccoglitore del Neolitico dalla pelle scura, i cui resti sono stati ritrovati nella caverna di Gough nel Somerset in Inghilterra? Arrivò nelle Isole Britanniche dopo l’ultima glaciazione, ma venne poi sostituito da agricoltori dalla pelle chiara di origine mediterranea, «probabilmente perché - suggerisce Kennedy - proprio gli agricoltori trasmisero malattie infettive alle quali loro erano diventati immuni nel corso del tempo, ma che devastarono le popolazioni indigene. Questi agricoltori furono a loro volta quasi completamente sostituiti da altri migranti, pastori della steppa eurasiatica, forse in seguito a un’ondata neolitica di peste bubbonica in Europa». 

La tradizione filosofica, da Aristotele a Machiavelli, ha spesso posto l’uomo al centro della narrazione storica, e invece, si legge nel saggio di Kennedy, fu un’epidemia batterica (devastanti recidive di peste) a innescare il crollo del feudalesimo a favore di un sistema capitalistico di lavoro flessibile, mentre il diffondersi della malaria tra i soldati settentrionali nella guerra civile americana «probabilmente ritardò la vittoria, dando forse a Lincoln il tempo di accettare l’idea di abolire la schiavitù» (il suo obiettivo principale, all’inizio del conflitto, "era preservare l’Unione, e non  salvare o distruggere la schiavitù" - come dichiarò. Con il tempo, però, si convinse che l’abolizione della schiavitù era necessaria sia per motivi morali che strategici). 

DALLE EPIDEMIE ANTICHE AL COVID - Il libro scritto dal sociologo inglese non è però solo una finestra sul passato, poiché grande attenzione è data ai giorni nostri. «La pandemia di Covid 19 - spiega Kennedy ad Assedio Bianco - non è stata un’eccezione nel corso storico, e ci sono tutte le condizioni perché non sia l’ultima. Cresce il numero degli abitanti sul pianeta; stiamo sempre più invadendo gli habitat degli animali; assistiamo all’ascesa dell’agricoltura industriale su larga scala; possiamo viaggiare agevolmente in tutto il mondo: ciò facilita enormemente la diffusione di patogeni. Inoltre, assistiamo, con preoccupazione, al fenomeno della resistenza agli antibiotici, causata dalle mutazioni genetiche a cui vanno incontro i batteri. Ma questo fenomeno è accelerato da un uso eccessivo e improprio degli antibiotici stessi». 

Siamo destinati a una fine tragica? «No, la lotta tra gli esseri umani e i patogeni - precisa Kennedy - non deve necessariamente finire in tragedia per i primi. I microrganismi, infatti, non sono solo potenziali nemici da sconfiggere, ma anche “partner” fondamentali nella nostra evoluzione». Si tratta, insomma, di un rapporto di interdipendenza, che include competizione e collaborazione - competition and collaboration, si legge nella versione originale di Pathogenesis: «Ad esempio, oggi sappiamo che i germi, questi nostri invisibili compagni, producono neurotrasmettitori come dopamina e serotonina; ci aiutano a digerire il cibo e modulano il nostro sistema immunitario. Recenti studi hanno dimostrato come le persone diagnosticate con depressione non presentano due batteri normalmente presenti nell’intestino, il Coprococcus e il Dialister. Capire e studiare i meccanismi che regolano le interazioni con virus e batteri ci permetterà di sviluppare nuove terapie e di migliorare la qualità della vita» - afferma il ricercatore, che però non manca di sottolineare come questa interdipendenza (competition and collaboration) sia solo una parte della sfida. L’altra parte riguarda la necessità di affrontare le disuguaglianze sociali e politiche che rendono alcune persone più vulnerabili alle infezioni.

Ripensiamo a quanto successo durante la pandemia di Covid 19, con conseguenze sanitarie globali (la maggior parte degli africani sub-sahariani è rimasta non vaccinata, ma anche in molti altri Paesi i risultati e l’accesso alle cure sono stati condizionati dallo status socio-economico). Riflettiamo anche sulla crescita della sfiducia negli scienziati, nonché sull’insofferenza per il distanziamento, la mascherina e l’isolamento (misure, tra l’altro, molto simili a quelle che nei secoli scorsi i governi avevano attuato in caso di pandemia, come la stessa parola “quarantena” ci ricorda, derivando dalla prassi adottata dalle autorità veneziane a fronte della peste del ’500, quando i contagiati dal morbo venivano isolati per quaranta giorni). «Con le restrizioni attuate per contenere la diffusione del virus SARS-CoV-2 (responsabile della malattia Covid 19), chi aveva una vita agiata - ricorda Kennedy - ha potuto affrontare l’emergenza sanitaria in modo relativamente confortevole, lavorando da casa e limitando i contatti sociali. Al contrario, chi lavorava in settori come i trasporti o la sanità, ha dovuto continuare a esporsi al rischio, spesso vivendo in condizioni di sovraffollamento. È comprensibile che molti abbiano sviluppato una certa diffidenza verso le indicazioni degli esperti.» 

E da qui, da queste considerazioni sociologiche, prende forma il messaggio a uomini della scienza e non solo, racchiuso nell’ultima parte del libro: «La crisi pandemica - scrive Kennedy - ha offerto (e tutt’ora il suo lascito offre) opportunità vitali di cambiamento nel nostro vivere sociale e sul pianeta, superando una visione antropocentrica e riconoscendo la centralità dei microrganismi patogeni nel modellare la nostra storia, collettiva e individuale. Allo stesso tempo - conclude l’autore di Pathogenesis - la recente pandemia ha messo in luce la necessità di adottare un approccio multidisciplinare, che integri la scienza, la medicina e le politiche sociali, assieme a una corretta informazione e comunicazione, per costruire un futuro più sano e sostenibile».

Data ultimo aggiornamento 3 novembre 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: recensioni



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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