NEUROLOGIA
Batteri e virus intestinali: ora si guarda anche a loro per capire meglio l’Alzheimer
La demenza di Alzheimer potrebbe essere anche l’esito di un’infezione cronica, di origine batterica o virale. L’idea è sul tavolo da anni, e ha già trovato conferme convincenti per alcuni virus. Ora esce rafforzata da due studi che propongono una via comune: quella che porta dall’intestino al cervello, e che spiegherebbe perché certi patogeni che si localizzano nelle pareti intestinali riescano a influenzare la neurodegenerazione.
Nel primo, condotto su modelli animali, l’attenzione è stata posta su un batterio molto comune, e tipicamente associato alle infezioni ospedaliere, specie degli anziani (ma non solo): la klebsiella pnemoniae, che provoca polmoniti. Secondo quanto illustrato sul Journal of Infectious Diseases dai ricercatori della Florida State University di Tallahassee, può migrare dall’intestino al sangue e da lì arrivare al cervello. Lì innesca una reazione immunitaria infiammatoria che, a sua volta, favorisce l’accumulo di beta amiloide e tau, le due proteine tipiche dell’Alzheimer. Il processo sarebbe aggravato dalle terapie antibiotiche che, provocando uno squilibrio nel microbiota intestinale (disbiosi), favoriscono la proliferazione e quindi la migrazione della klebsiella.
Nel secondo lavoro, invece, sotto accusa (da parte dei ricercatori dell’Università dell’Arizona) è finito un virus estremamente diffuso, il citomegalovirus (HCMV), uno dei 9 herpesvirus circolanti nella popolazione umana, e per il quale l’80% delle persone con più di 80 anni ha gli anticorpi, prova di un avvenuto contatto. Di norma, per le persone non in gravidanza, HCMV non dà sintomi particolarmente gravi, ma ciò che hanno scoperto i ricercatori lo candida a fattore di rischio per l’Alzheimer. In questo caso, il virus migrerebbe infatti dall’intestino al cervello attraverso il nervo vago e, una volta arrivato, scatenerebbe anch’esso una reazione immunitaria-infiammatoria. Lo hanno dimostrato le due parti del lavoro. La prima, pubblicata qualche mese fa su Nature Communications, ha illustrato i dati delle autopsie di un centinaio di malati, che mostrano la presenza di linfociti specifici (CD38) nel cervello, e di anticorpi collegati di tipo IgG4 nell’intestino. La seconda, appena uscita su Alzheimer & Dementia, mostra invece che il liquido cerebrospinale delle stesse persone contiene anticorpi anti HCMV, che rafforzano l’ipotesi di una migrazione.
Le implicazioni di queste ricerche sono importanti perché, se i dati fossero ulteriormente rafforzati, si aprirebbe la strada per un nuovo approccio terapeutico, basato interamente sulla prevenzione (per esempio attraverso i vaccini) o la cura delle infezioni (tramite antivirali o antibatterici): una vera rivoluzione, per una malattia per la quale non esiste ancora una terapia efficace, ma che colpoisce milioni di persone in tutto il mondo.
A.B.
Data ultimo aggiornamento 23 dicembre 2024
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