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Autotrapianto di cellule staminali
per ricominciare a produrre insulina

Elaborazione al computer di cellule viste al microscopio (foto iStock)

di Agnese Codignola

Per ora si tratta di un unico caso, una ragazza di 25 anni. E, come sempre, un solo paziente costituisce più che altro una speranza, e quella che in inglese si chiama proof of concept, cioè prova del fatto che l’idea di fondo non è sbagliata. Ma il caso della giovane alla quale sono state trapiantate le sue stesse cellule staminali e, grazie a questo, è guarita (apparentemente) dal diabete di tipo 1, autoimmune, in realtà arriva dopo una lunga serie di altri tentativi simili che hanno avuto successo, anch’essi su pochissimi pazienti (e diversi da vari punti di vista). E tutto ciò, nel suo insieme, inizia a sembrare qualcosa di concreto. 

La storia della ragazza (che vive a Tianjing, in Cina) è stata riportata sulla rivista scientifica Cell dal team sino-canadese che ha effettutato la preparazione delle cellule e l’intervento, e ripresa da Nature a un anno di distanza dal trapianto, effettuato in Canada, presso l’Ospedale dell’Università dell’Alberta di Edmonton, dal team di James Shapiro. Vediamo di che cosa si tratta.

UNA TECNICA INNOVATIVA - Il trapianto della donna è stato ideato da Deng Hongkui, un biologo della Peking University di Pechino, che ha utilizzato le cellule staminali indifferenziate della paziente, o IPS (da Induced Pluripotent Stem Cells), prelevate dal tessuto adiposo, seguendo una tecnica proposta circa vent’anni fa da un collega giapponese, con lo scopo di fornire cellule che potessero rimpiazzare quelle che producono insulina  (queste cellule, nel diabete di tipo 1, vengono attaccate per errore dal sistema immunitario, e progressivamente muoiono).

Le cellule staminali - questa la scommessa - se messe nelle condizioni opportune, si specializzano, evolvono, diventano cellule beta del pancreas (o almeno molto simili), e a quel punto possono essere trapiantate, e ricominciare a secernere insulina in risposta ai livelli di glucosio del sangue. Già, ma come fare per mettere le cellule staminali nelle giuste condizioni affinché diventassero via via “pancreatiche”, e non altro? Con l’aggiunta del giusto mix di sostanze, che assicurano una maturazione che rappresenta un passo in avanti rispetto a quella proposta nell’approccio classico. Nella tecnica originale, infatti, erano state aggiunte certe proteine, ma in quella di Hongkui sono state utilizzate sette sostanze chimiche, molto più facili da controllare rispetto alle proteine.

La miscela di cellule staminali e composti chimici ha dato luogo a veri e propri grumi di cellule beta pancreatiche, pronti per essere trapiantati, come in effetti è avvenuto, inizialmente su modelli animali come i topi e i primati non umani.

Visto l’esito positivo dei test sui modelli, nel 2023 è arrivato il momento di operare la prima paziente, una ragazza che aveva già subito un trapianto di fegato e che per questo assumeva immunosoppressori: un’evenienza che, se da una parte ha lasciato alcune domande senza risposta (come vedremo tar poco), dall’altra ha posto la paziente al sicuro da eventuali reazioni di rigetto.

Anche l’intervento, durato una mezz’ora in tutto, è stato innovativo: i grumi di cellule sono stati impiantati nei muscoli dell’addome, cioè in una posizione in cui sarebbe stato facile monitorarne il destino, ed eventualmente rimuoverli in fretta, in caso di necessità. Finora, invece, le isole pancreatiche si sono sempre trapiantate nel fegato, un organo di per sé delicato e sul quale non è semplice intervenire in caso di necessità.

In totale, la donna ha ricevuto l’equivalente di 1,5 milioni di isole pancreatiche, e 2,5 mesi dopo la sua produzione di insulina era tale da permetterle di avere livelli di glucosio entro i "range" di normalità per il 96% del tempo, mentre prima del trapianto non superava il 43%. Anche l’emoglobina glicata, parametro fondamentale, era tornata alla normalità, attorno al 5%, e dopo un anno il tempo nel quale i valori erano normali era stabilmente il 98% del totale: un successo, per di più senza segni di complicazioni o rigetto.

I ricercatori hanno comunque spiegato che bisognerà attendere almeno cinque anni prima di poter dichiarare la ragazza “curata”, ma l’ottimismo è palpabile, anche perché altri due pazienti, trattati dallo stesso Hongkui, sembrano reagire ugualmente bene. I risultati di questi ultimi dovrebbero essere resi noti allo scadere dell’anno dal trapianto, e cioè nel prossimo mese di novembre, e se saranno come ci si aspetta potrebbero dare il via a una nuova fase della sperimentazione, su 10-20 pazienti.

Resta però da chiarire un aspetto fondamentale: quello del rigetto. La prima paziente assumeva farmaci immunosoppressori, e non ne ha avuto alcun segno. Tuttavia, il diabete di tipo 1 è una malattia autoimmune, nella quale gli autoanticorpi sono specializzati contro le cellule pancreatiche del paziente stesso, e il rischio è che si rivolgano anche contro quelle “nuove”. Occoreranno quindi molti controlli e test su vari assortimenti di farmaci, prima di trovare le condizioni ideali.

IL FUTURO - Ben consapevoli del rischio, le aziende che stanno lavorando sul trapianto di cellule staminali per il diabete cercano anche di prevenire qualunque reazione che possa causare il fallimento della procedura. E si tratta di passaggi fondamentali, soprattutto per chi spera di arrivare a un protocollo e a prodotti standardizzati e commercializzabili. L’autotrapianto, come nel caso della paziente cinese, e come è avvenuto in un’altra sperimentazione di trapianto di cellule staminali indifferenziate, questa volta su un uomo di 59 anni malato di diabete di tipo 2, non è infatti un’opzione che può andare bene per tutti, anche perché richiede procedure complesse che durano mesi, e non tutti i pazienti possono essere nelle condizioni adatte ai prelievi di cellule.

Piuttiosto, è necessario trovare il modo di utilizzare cellule staminali da donatore, da far riprodurre in quantità, trattare e trapiantare. Una delle aziende più avanti in questo settore è la Vertex di Boston, che nello scorso giugno ha annunciato il trapianto di cellule staminali embrionali in una dozzina di persone con diabete di tipo 1, attraverso il fegato. Tutte sono state trattate anche con immunosoppressori e tutte, entro tre mesi, hanno iniziato a produrre insulina. Alcuni hanno già potuto rinunciare alla somministrazione esterna. La stessa Vertex, poi, ha annunciato un passaggio ulteriore: l’inserimento delle cellule pancreatiche in una sorta di involucro finalizzato a renderle invisibili al sistema immunitario del ricevente. Il primo paziente trattato non ha ricevuto immunosoppressori, anche se l’esito, per ora, non è stato reso noto. Ma poiché l’azienda sta iniziando a trattare altre 17 persone, è presumibile che i dati preliminari siano positivi.

Infine, un altro ricercatore del settore, Daisuke Yabe, della Kyoto University, sta seguendo una strada che tiene conto di entrambi gli approcci, e cioè quella di proteggere le cellule da trapiantare, e di trapiantarle nell’addome, per ora insieme agli immunosoppressori. Il primo (di tre) paziente dovrebbe ricevere il trapianto all’inizio dell’anno prossimo. 

Intanto, la paziente cinese ha ripreso a mangiare dolci  e altri alimenti senza doversi preoccupare della glicemia.

I malati di diabete (1 e 2) nel mondo sono circa 500 milioni e i numeri sono in crescita.

Data ultimo aggiornamento 28 settembre 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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