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Malattia di Alzheimer, ancora dubbi
sui nuovi anticorpi monoclonali


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di Agnese Codignola

Le nuove terapie approvate contro la malattia di Alzheimer negli Stati Uniti, in Australia e in Giappone, a base di anticorpi monoclonaliGli anticorpi monoclonali sono anticorpi del tutto simili a quelli che il sistema immunitario produce contro i “nemici” (batteri, virus e altro ancora), ma non sono presenti in modo naturale nel nostro organismo. Vengono creati in laboratorio, grazie a tecniche di ingegneria genetica, e sono mirati contro un preciso bersaglio della malattia, identificato dai ricercatori: per esempio, nel caso del Covid, contro la proteina Spike, utilizzata dal coronavirus per entrare nelle cellule e infettarle. Una volta prodotti, vengono fatti moltiplicare in laboratorio, identici, in un numero grandissimo di copie, o di cloni (per questo vengono chiamati monoclonali), e poi immessi nell’organismo del paziente, in genere tramite infusione (endovena)., sono state salutate da alcuni come la prima vera svolta nelle cure dopo decenni. Tuttavia, da molti altri esperti vengono invece considerate pericolose, oltreché inefficaci, perché potrebbero essere associate a effetti gravi sul cervello, tra i quali la perdita di volume e l’accumulo di liquidi. E ora una metanalisi, cioè una tecnica statistica che combina i risultati di diversi studi, conferma che questi anticorpi, che sono rivolti contro le placche della proteina beta-amiloide che si depositano nel cervello (considerate responsabili, almeno in parte, di questa patologia), in realtà, sono estremamente delicati da utilizzare, e si possono somministrare in sicurezza soltanto a precise condizioni e su pazienti selezionati, che vanno poi seguiti strettamente nel tempo. Oltretutto, per verificare se, a fronte di rischi consistenti, riescano davvero a rallentare il decadimento cognitivo (dal momento che i dati oggi disponibili sono relativi al massimo a 18 mesi di terapia), bisognerà attendere anni.

I due anticorpi monoclonali più recenti, chiamati aducanumab e lecanemab, dell’azienda giapponese Eisai, in collaborazione con il colosso delle biotecnologie statunitense Biogen, sono stati approvati dalla Food and Drug Administration statunitense (FDA, l’ente che sovrintende alla sperimentazione e al commercio dei farmaci negli USA) tra il 2021 e il 2022, e vanno somministrati a pazienti ai primi sintomi della malattia. Il via libera è stato accompagnato da polemiche roventi, perché, secondo una parte non piccola della comunità scientifica, e secondo tutti i membri (tranne uno) della commissione chiamata dalla FDA a valutare i dati sottoposti per l’approvazione, non ci sarebbero prove sufficienti di un effetto sul declino cognitivo. Come già avvenuto per altri farmaci e anticorpi anti-amiloide mai giunti alla commercializzazione, infatti, al dissolvimento delle placche non corrisponderebbe necessariamente un chiaro effetto sulla memoria e sugli altri parametri cognitivi. 

Nello stesso tempo, il distacco di frammenti dalle placche potrebbe essere all’origine dei tre decessi che sono stati accertati durante gli studi per la verifica del lecanemab, provocati da ictus emorragici improvvisi che, secondo alcuni esperti, sarebbero stati innescati proprio dal cambiamento improvviso della situazione dei vasi del cervello su cui si formano le placche. 

Ora, però, a sostenere le ipotesi di un legame tra entrata in circolo dei monoclonali, scioglimento delle placche e danni gravi al cervello arriva una metanalisi, cioè una valutazione accurata di tutti i dati resi pubblici finora su possibili effetti collaterali associati a farmaci anti-amiloide, con numeri che sarà difficile ignorare, e che potrebbero mettere ancora di più in discussione queste terapie, non approvate (per ora) in Europa, che oltretutto sono molto costose, .

I neurologi del Florey Institute of Neuroscience and Mental Health di Melbourne, in Australia, hanno infatti pubblicato su Neurology, una delle riviste scientifiche più importanti del settore, i dati relativi a 31 sperimentazioni cliniche condotte su due tipi di terapie anti-amiloide, sia composte da anticorpi monoclonali (in 16 casi), sia appartenenti a una seconda categoria, costituita da piccole molecole che bloccano una classe di enzimi fondamentali per la formazione delle placche stesse (chiamati secretasi). 

Il risultato è stato preoccupante, perché sia il lecanemab sia un altro anticorpo, giunto ormai alle fasi finali della sperimentazione clinica, proposto dall’azienda Eli Lilliy, chiamato donanemab, sono associati a un restringimento del volume del cervello più accentuato rispetto a quello che normalmente si verifica nei pazienti con Alzheimer, in media più elevato del 28% rispetto a ciò che si osserva nei gruppi di controllo, dopo 18 mesi di terapia. Tradotto in unità di misura, sarebbero  5,2 millilitri di cervello persi. Se il dato fosse confermato, la cura aggraverebbe la malattia, invece di contrastarla, accelerando la perdita di materia cerebrale. L’effetto, che si vede con gli anticorpi ma non con gli anti-secretasi, sarebbe dovuto anche al fatto che i monoclonali provocano un allargamento di alcune strutture cave interne del cervello chiamate ventricoli (nel caso del lecanemab del 36%), e questo, a sua volta, accelera la morte delle cellule delle parti più esterne.

Le anomalie riscontrabili con le indagini di imaging (risonanza magnetica e altre) sono talmente specifiche e riconoscibili da essersi guadagnate la creazione di una categoria a sé stante: quella, appunto, delle anomalie di imaging legate all’amiloide (o, in siglia, ARIA). Queste anomalie, sottolineano i ricercatori australiani, sono state rilevate nel 36% delle 898 persone che hanno assunto lecanemab, contro il 9% dei gruppi di controllo. Da notare che le ARIA sono indicative della presenza di un’infiammazione (che, quindi, sarebbe data dai monoclonali). Ma le infiammazioni sono tra le cause certe di neurodegenerazione.

Come sottolinea la rivista Science in un articolo di commento, non ci sono - in verità - dati certi sul possibile legame tra edema e restringimento del cervello indotto dai monoclonali e situazione cognitiva, ma è estremamente probabile che non migliori e che, anzi, peggiori.

A rafforzare indirettamente l’allarme, confernato anche dai dati dell’autopsia di una delle tre vittime, illustrati ancora su Science, sono poi i dati di un altro anticorpo studiato sempre dalla Eli Lilly (che ha al suo attivo alcuni fallimenti come quello con il monoclonale anti-amiloide solanezumab, ritirato dalle sperimentazioni), che dovrebbe rappresentare una nuova generazione di monoclonali anti-beta amiloide, chiamato remternetug. L’azienda ha infatti presentato a un recente congresso internazionale i dati sui primi 41 volontari sottoposti al trattamento, che confermano la capacità di sciogliere le placche. Tuttavia, 10 di essi (una percentuale simile a quella vista nella metanalisi) hanno avuto ARIA significative, e uno ha dovuto interrompere la cura a causa di effetti collaterali troppo gravi. A prescindere dalla generazione del monoclonale, sembra che sia l’attacco all’amiloide a destabilizzare il cervello così gravemente da farlo restringere e riempire di liquidi.

Come ha ricordato la rivista scientifica Nature in un lungo articolo appena pubblicato, dopo decenni di fallimenti della strategia che punta esclusivamente sull’attacco alle placche di beta-amiloide, diversi gruppi di ricerca hanno deciso di indagarealtrove: per esempio, concentrandosi sulla proteina più caratterizzante dell’Alzheimer, la tau, che forma aggregati (fibrille) all’interno delle cellule, con farmaci e vaccini, o su altre possibili cause quali alcune infezioni virali.

Nel frattempo, anche il National Institute of Aging (NIA) statunitense, che per moltissimi anni ha sostenuto in ogni modo l’approccio incentrato sulle placche, ha iniziato a rivolgere la propria attenzione (e il proprio denaro) altrove. Secondo l’agenzia di stampa Reuters, infatti, i NIA sta per lanciare un grande progetto della durata minima di 6 anni, finanziato inizialmente con 300 milioni di dollari, per realizzare una piattaforma unica dove inserire tutti i dati esistenti nel sistema americano associati alla ricerca, alla clinica, alle assicurazioni e così via. Dalla condivisione e dalle indagini sui big data che potrebbero essere generati – questa la speranza – potrebbero arrivare nuove indicazioni utili a comprendere finalmente la vera natura della malattia, e gli strumenti migliori per contrastarla.

Data ultimo aggiornamento 15 aprile 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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