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Alimentazione e sistema immunitario:
intrecci complessi, ma ora più chiari

(Foto dell’agenzia iStock)

di Agnese Codignola

“Rafforza le difese”. “Fortifica il sistema immunitario”. “Un aiuto per i mali di stagione”. La lista delle mirabolanti virtù attribuite a supplementi e alimenti, fortificati (cioè addizionati di qualche micronutriente) e non, è lunga, e diventa particolarmente evidente nei cambi di stagione. Perché, anche se varie normative vietano di associare direttamente un prodotto a effetti sulla salute, a meno che questi non siano specificamente dimostrati, il marketing trova comunque il modo di aggirare le regole e di suggerire che il sistema immunitario non potrà che beneficiare di un certo alimento, bevanda o supplemento nelle sue diverse forme (pillole, bibite, barrette, polveri e così via). Ma che cosa c’è di vero? Che cosa dice la scienza dei complessi e ancora in gran parte misteriosi rapporti tra ciò che ingeriamo e l’efficienza del sistema immunitario o - quando quest’ultimo non funziona a dovere, perché reagisce contro l’organismo che lo ospita causando una malattia autoimmune - della possibilità di regolarlo attraverso l’alimentazione? A questa domanda cercano di rispondere, da decenni, centinaia di ricercatori, impegnati in tutto il mondo a trovare il bandolo di una matassa che, probabilmente, non si troverà mai del tutto, perché la sua identificazione non può prescindere da un numero troppo elevato di variabili che, oltretutto, cambiano continuamente.

Il labirinto dei rapporti tra cibo e sistema immunitario

Esistono due tipi di attori, in questa rappresentazione: ciò che mangiamo, e il nostro organismo.
Per quanto riguarda i primi, per capire con quale complessità ci si debba confrontare, basti pensare che anche il prodotto più sano e naturale come, per esempio, una mela, non sarà mai uguale a se stesso. Il contenuto dei suoi nutrienti cambia con la varietà, i trattamenti (con fitofarmaci), l’esposizione alla luce, il tipo di terreno, e poi la conservazione, il tempo in cui viene mangiata rispetto a quando è stata colta e altri parametri. Se invece si pensa gli alimenti anche minimamente lavorati, ognuno di essi avrà un valore nutrizionale che dipenderà da ciò che vi è stato aggiunto, da come è avvenuta la lavorazione, da com’è stata la conservazione e poi la preparazione. Per arrivare infine a ciò che ormai costituisce più del 60% delle calorie di buona parte del mondo: gli ultraprocessati, cioè gli alimenti industriali, la cui preparazione e conservazione passano attraverso decine di sostanze diverse, ciascuna delle quali ha un suo effetto sulla salute, più un effetto che deriva dalla combinazione con gli altri additivi, e uno che giunge dall’accumulo nel tempo nell’organismo.

Per tutti questi motivi non esistono superfood, ma solo alimenti, nella loro estrema variabilità.

Dall’altra parte c’è, appunto, l’organismo umano, le cui reazioni cambiano a seconda del patrimonio genetico, della composizione del microbiota intestinale e dello stile di vita. 

Mettere insieme le due grandi classi di protagonisti, considerando che gli effetti del cibo sulla salute hanno bisogno di anni per prodursi, è quasi impossibile. Anche perché nessuno mangia per tutta la vita le stesse cose tutti i giorni.

In questo scenario, c’è comunque chi prova a interpretare i grandi numeri che arrivano dall’epidemiologia: è grazie a questo approccio che si sono dimostrati, dopo anni, gli effetti di alcuni cibi per esempio sul cancro.

In alternativa e a complemento di questo ci sono gli studi sui modelli animali; in quel caso, essendo la vita media molto più breve e potendo i ricercatori controllare la dieta fino nei più piccoli particolari, qualche certezza è stata raggiunta, anche per quanto riguarda i rapporti con il sistema immunitario. La rivista Nature, di recente, ha riassunto i risultati più interessanti.

Le meraviglie della chitina

C’è una proteina diffusissima in natura, che arriva già sulle nostre tavole e che, presumibilmente, ci arriverà sempre di più: la chitina. Il motivo è che essa costituisce la parte principale dello scheletro dei crostacei, degli insetti e anche di molti funghi: tutte fonti di proteine alternative alla carne che stanno diventando sempre più popolari, e che dovranno necessariamente entrare a far parte della dieta di un’umanità che arriverà presto a dieci miliardi di persone, e che non si può più permettere il sistema degli allevamenti intensivi.

I ricercatori della Washington University di Saint Louis (Missouri, USA), guidati da Steven Van Dyken, hanno scoperto un meccanismo che potrebbe tornare utile: la chitina, una volta arrivata allo stomaco, induce movimenti più forti rispetto alla norma, e questo stimolo meccanico attiva il sistema immunitario. Il quale, a sua volta, sintetizza un enzima specifico per la digestione della chitina. L’enzima facilita quindi la digestione e ha effetti sul metabolismo che potrebbero essere sfruttati. Quando esso è assente – per esempio nei modelli animali geneticamente modificati per non avere il gene specifico – si ha una perdita di massa grassa e di peso e una migliore sensibilità all’insulina. Inoltre, la chitina stimola la produzione di Glucagon-like Peptide 1 o GLP-1, lo stesso peptide che è stimolato dai farmaci antidiabetici e antiobesità della classe del semaglutide (ozempic). La chitina potrebbe quindi avere un ruolo anche nel controllo del peso, come alternativa ai farmaci. In definitiva, i delicati equilibri che intercorrono tra la chitina, l’enzima che la metabolizza, il sistema immunitario di tipo 2 che viene attivato e che secerne l’enzima potrebbero essere al centro di nuove cure del diabete, dell’obesità e del metabolismo che passano attraverso il sistema immunitario. Non a caso, Van Dyken ha già depositato alcuni brevetti.

Psoriasi

Anche la psoriasi, condizione autoimmune, è legata a ciò che si mangia, almeno in parte. È noto da anni, infatti, che le persone obese hanno un’incidenza di questa malattia che è da due a tre volte quella che si riscontra nei soggetti normopeso, e forme più gravi. Inoltre, perdere peso attenua le crisi. Questo avviene perché l’obesità comporta una condizione di infiammazione cronica nella quale il sistema immunitario è sempre attivato. E lo è, quindi, anche contro le cellule della pelle bersaglio dell’attacco autoimmune.

È noto, del resto, che un’alimentazione piena di grassi aggrava la malattia, e i ricercatori della Emory University di Atlanta (Georgia, USA) hanno dimostrato che le popolazioni di cellule immunitarie come i linfociti T cambiano con il peso: quando i chili sono eccessivi, i linfociti T che tengono sotto controllo le reazioni sono meno presenti, mentre quando il peso è nella norma sono più rappresentati. Per questo gli obesi tendono ad avere una malattia più difficile da gestire. Anche per la psoriasi, da questi studi di base potrebbero arrivare nuovi approcci terapeutici basati sull’alimentazione.

Il digiuno: una moda anche pericolosa

Una delle mode che hanno attratto il maggior numero di persone negli ultimi anni, anche grazie agli incauti e forse non sempre disinterssati endorsement di personaggi noti, è quella dei digiuni intermittenti. Sperimentati come modalità utile a perdere peso e a favorire alcuni tipi di terapie (in condizioni molto specifiche), negli ultimi anni ai digiuni intermittenti, nelle loro varie declinazioni, sono state attribuite anche proprietà mai dimostrate.

Per esempio, per quanto riguarda il peso, sono stati pubblicati ormai diversi studi che dimostrano che l’efficacia del digiuno non è superiore a quella di qualunque altra dieta dimagrante data da un dietologo, e che, come con qualunque altra dieta, una volta che si smette, se non si mantengono certe abitudini salutari, il peso torna.

Uno degli argomenti su cui si fa più leva, però, è quello del sistema immunitario, che subirebbe una sorta di reset a causa del digiuno, dal quale uscirebbe più efficiente e reattivo. Che cosa c’è di vero? Qualcosa, effettivamente, accade, ma è necessario tenere a mente tutti gli aspetti, e non solo quelli pubblicizzati. Per esempio, il digiuno sembra aiutare a tenere sotto controllo l’aterosclerosi, l’ipertensione e l’asma e, in alcuni casi, le malattie autoimmuni. Cheng Zhan, dell’Università di Hefei, in Cina, ha visto che, in seguito al digiuno, si attivano alcune cellule nervose del tronco encefalico (la parte di sistema nervoso che congiunge il cervello con il midollo spinale), e in seguito a questa attivazione i linfociti T si ritraggono dagli organi periferici come la milza, il sangue e i linfonodi, per confluire nel midollo osseo.

Ciò spiega perché nei modelli animali di sclerosi multipla si veda che, quandi quelle cellule nervose sono attive, le crisi si attenuano significativamente, la paralisi e la perdita di peso tipiche della malattia rallentano e la sopravvivenza aumenta. Le cellule responsabili della reazione autoimmune si allontanano dalle sedi e questo garantisce una tregua dall’attacco autoimmune.

Anche in questo caso, l’idea è di riuscire a trasformare queste scoperte in una terapia, per esempio attivando elettricamente oppure con farmaci quei neuroni, senza bisogno di imporre digiuni.

Tuttavia bisogna sapere che, per lo stesso tipo di meccanismo, e cioè il richiamo dei linfociti verso il midollo osseo, digiunare può indebolire la reattività del sistema immunitario, perché riduce il numero di monociti circolanti anche del 90%. In questo modo, abbassa le difese contro i patogeni, contro cui i monociti sono diretti. Quando poi si interrompe il digiuno, i monociti tornano in massa nel sangue dove, a quel punto, possono provocare una monocitosi, condizione associata alle infiammazioni e alle malattie autoimmuni. Inoltre, questi monociti sono meno efficaci di quelli normali: se si infettano gli animali che hanno digiunato con lo Pseudomonas aeruginosa, batterio che causa polmoniti, questi moriranno prima e in maggiori quantità rispetto a quanto non accada agli animali di controllo, come ha dimostrato Filip Swirski, immunologo della Mount Sinai School of Medicine di New York. Secondo lui, se il digiuno è troppo lungo, i rischi sono di gran lunga superiori ai benefici.

La dieta delle feste

Il contrario del digiuno, ossia quella che viene chiamata in gergo dieta delle feste, a segnalare un’alimentazione ricca di grassi e di cibi densamente calorici e con poche fibre, a sua volta ha effetti sul sistema immunitario. A essa si dedica Francesco Siracusa dello University Medical Center Hamburg-Eppendorf di Amburgo, in Germania, che ha alimentato gli animali così per tre giorni, per poi tornare alla dieta normale, e poi di nuovo a quella delle feste. In pochissimo tempo ha potuto osservare cambiamenti evidenti e profondi nel sistema immunitario, con un calo nelle attività e nel numero dei linfociti T. La minore efficienza sarebbe causata dall’indebolimento del microbiota intestinale, preziosa fonte di cellule immunitarie, provocato dalla scarsità di fibre. Siracusa ha poi ripetuto il test su sei volontari, e ha trovato gli stessi effetti. Per quanto temporanei, questi mutamenti mostrano l’importanza delle fibre, e in generale dell’alimentazione sul sistema immunitario. 

I trial sui volontari

Come detto, eseguire studi che diano risposte valide sulle persone è molto difficile: anche quando si chiede loro di mangiare o bere solo ciò che viene dato – richiesta che dura al massimo qualche settimana, il tempo dello studio – i volontari di solito sgarrano e, in media, assumono fino a 400 calorie al giorno in alimenti non previsti. Per questo Kevin Hall, dello US National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases di Bethesda (Maryland, USA), chiede sempre a chi vuole partecipare di rimanere ricoverato nel centro ospedaliero di Bethesda, in modo da poter realmente controllare che cosa mangiano o bevono i partecipanti. Negli ultimi anni ha condotto diversi studi di questi tipo soprattutto sul metabolismo, ma poi ne ha fatto uno su venti persone, insieme a Yasmine Belkaid, l’attuale direttrice US National Institute of Allergy and Infectious Diseases sempre di Bethesda, sull’effetto degli ultraprocessati sul sistema immunitario. Durante quattro settimane, i ricercatori hanno dato ai volontari una dieta chetogenica, cioè basata su molte proteine e pochissimi carboidrati (altra protagonista di molte mode del momento), oppure una vegana a basso tenore di grassi per due settimane, e poi hanno invertito i gruppi per altre due. Hanno così visto che a ogni regime corrisponde un netto cambiamento della composizione delle diverse popolazioni di cellule del sistema immunitario. Mentre con la prima si ha un potenziamento del sistema immunitario adattativo e quindi delle cellule B e T, che servono per le reazioni specializzate, con quella vegana si ha un rinforzo di quello innato, più rapido a intervenire, ma anche meno specializzato. Per il momento non ci sono informazioni sufficienti a ricavarne consigli dietetici, ma nei prossimi mesi il gruppo sperimenterà alcuni alimenti come se fossero farmaci, cioè con un approccio nutraceutico, per verificare alcune ipotesi.

Alimentazione e autoimmunità

Per quanto riguarda l’autoimmunità, infine, in futuro a Bethaesda saranno reclutate alcune persone con il lupus eritematoso sistemico, mentre altri studi hanno già sperimentato il ruolo di diete chetogeniche nella psoriasi o nella sclerosi multipla, con esiti non ancora del tutto chiari: moltissimo resta da fare, ma le speranze sono alte. “Nei prossimi dieci anni avremo consigli dietetici rigorosi da applicare in una vasta gamma di ambiti clinici” ha concluso Belkaid. “Penso che la nutrizione abbia un enorme potenziale clinico”.

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Data ultimo aggiornamento 10 novembre 2024
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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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