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Alex Zanardi: «Per i diversamente abili
c’è da fare di più e non sarà mai abbastanza»

L’ex-pilota di Formula 1, che ha perso le gambe nel 2001 sul circuito di Lausitzring, è diventato una leggenda vivente per i suoi successi sportivi e per il suo impegno. L’abbiamo intervistato al Campionato Mondiale di Paraciclismo

di Maria Santoro

Quanto si può ancora fare in Italia e in altri Paesi europei per promuovere e realizzare una vera integrazione della disabilità nello sport? Ce lo ha raccontato al Campionato Mondiale di Paraciclismo di Maniago (Pordenone) Alex Zanardi, leggenda vivente che attraversa l’universo a quattro ruote (Cart, Formula3 , Formula1, WTCC) e tre ruote (handbike).

La sua storia personale e agonistica è diventata simbolo senza tempo di coraggio e determinazione. Nei suoi occhi, la passione e l’entusiasmo, il gioco e la competizione capaci di trasformare ogni sfida in un successo, come fosse Re Mida dello sport: «In verità io sono una persona molto fortunata, che nella vita ha potuto aggiungere tantissime esperienze diverse – afferma. -  Mi ci sento molto comodo in questa vita. Anche senza gambe, non mi sono mai seduto, forse per questo non è servito rialzarmi».

Un anno e mezzo dopo il tragico incidente del 2001, Alex è ritornato al circuito di Lausitzring, in Germania, dove ha perso gli arti inferiori, per completare i 13 giri mancanti. Ha scoperto l’handbike nel 2007 alla maratona di New York vinta nel 2011, partecipato all’Ironman World Championship Final di Kona, conquistato due ori alle Paralimpiadi di Londra e altrettanti a Rio de Janeiro. Oggi è considerato un atleta di grande ispirazione per tutti: «Il mio percorso di vita è anche molto romantico – sottolinea - se posso essere stato la scintilla per alcuni che la stavano cercando ne sono enormemente lusingato».

Alex può permettersi oggi i mezzi più avanzati, ma chiamarsi Zanardi (lui stesso lo ammette) fa la differenza: «Tocca sudare lo stesso, però – afferma. – Non tutti gli atleti hanno le stesse opportunità: per i diversamente abili c’è da fare di più e non sarà mai abbastanza».

Nel 2005 con il dottor Claudio Marcello Costa e la RTM, il centro di Budrio (Bologna) dove è stato assisito per la riabilitazione, ha fondato l’associazione benefica  “Bimbingamba” per raccogliere contributi e realizzare protesi ai bambini che non possono accedere a questo prezioso ausilio:  «Abbiamo chiuso un piccolo vuoto, aiutato molti bambini a  ritrovare il sorriso, la voglia di vivere e  buttarsi i problemi alla spalle  - racconta Zanardi. – Sono gioie incalcolabili, sono stati tanti i momenti in cui ho spento il motore dell’auto in garage, e mi sono detto “ne è valsa la pena” ».

Le storie toccanti che hanno incrociato il suo destino lo hanno convinto e incoraggiato a fare di più: «Ho ideato un progetto socio-solidale, una sorta di centro d’ascolto per lo sport che si chiama Obiettivo3, per avviare le persone all’agonismo e dimostrare che la disabilità è una caratteristica, non un limite – continua. - Condividere ci tiene vivi, alimenta il nostro cammino di vita. Mi auguro che tutto questo sia d’esempio e un invito a rimboccarsi le maniche: dove non arriva uno magari interviene qualcun altro».

Alex Zanardi non è solo un pilota, ma pure un conduttore televisivo. Nel 2010 si è occupato di divulgazione scientifica con il programma per Rai3 E se domani: «È stata un’esperienza bellissima - racconta - anche se mia moglie, scherzando, mi diceva che ero l’unico conduttore con domande più lunghe delle risposte... Amare la scienza significa saper trasformare la tecnologia, le scoperte scientifiche in una grande opportunità e non consentire però alla tecnologia di condizionare la nostra vita».

Il dottor Costa è ricorso alle sue conoscenze mediche per occuparsi della riabilitazione post incidente di Zanardi: «Ma è stato altrettanto capace, un bel giorno, di inventarsi una fasciatura un po’ particolare per evitarmi un intervento chirurgico – conclude Alex. – Anche nella scienza c’è bisogno dell’estro creativo! ».’

Data ultimo aggiornamento 23 agosto 2018
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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