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Antidiabetici e trapianto di microbiota:
la cura del Parkinson passa dall’intestino

C’è una relazione al centro delle ultime novità sul trattamento del morbo di Parkinson: quella tra intestino e cervello. Due studi molto diversi, che autorizzano a sperare, chiamano infatti in causa direttamente l’organo addominale, a conferma dell’importanza della via di comunicazione diretta chiamata appunto asse intestino-cervello.

Nel primo, pubblicato sul New England Journal of Medicine dai neurologi di diversi centri di ricerca e cura francesi, l’ipotesi era che l’assunzione del lixisenatide, uno degli antidiabetici orali della famiglia degli agonisti di GLP-1 (la stessa classe del più noto Ozempic), potesse essere positiva. I presupposti teorici partono dall’azione antinfiammatoria di questi farmaci, che agiscono tanto nell’intestino quanto nel cervello, e da un generale effetto neuroprotettivo, che ha portato a studiarli anche contro la demenza di Alzheimer (gli studi clinici sono in corso). In questo caso, 156 pazienti con la forma iniziale sono stati trattati con il farmaco o con un placebo per un anno, e il risultato è stato che i primi non hanno avuto alcun peggioramento dei sintomi motori, mentre i controlli sì, tendenza confermata anche dopo due mesi dalla fine della cura. Va ricordato che altri studi hanno dato risultati di segno opposto, ma anche simile, a seconda dei casi. Non c’è dunque ancora alcuna certezza, anche se il rallentamento della progressione, di per sé, sarebbe già un passo in avanti.

Un risultato simile, e cioè un lieve beneficio sui sintomi motori, è stato ottenuto anche dai neurologi dell’Università di Ghent, in Belgio, che hanno utilizzato il trapianto di microbiota fecale. Si tratta di un approccio che punta a somministrare estratti di microbiota fecali di persone sane in persone che hanno alterazioni del microbiota. Nel caso del Parkinson, la proteina più coinvolta, l’alfa-sinucleina, forma aggregati che precipitano nell’intestino anni prima della diagnosi, si pensa a causa di uno squilibrio nella flora batterica. Da qui l’idea di agire su di essa e, quindi, nell’intestino, prma che gli aggregati raggiungano il cervello attraverso l’asse specifico. Nello studio, pubblicato sulla rivista del gruppo Lancet eClinical Medicine, 22 pazienti hanno ricevuto il trapianto, e 22 un placebo, tutti attraverso un sondino che, inserito nel naso, arrivava all’intestino tenue. Dopo 12 mesi dal trapianto, i trattati hanno mostrato un lieve miglioramento dei sintomi motori, decisamente più marcato rispetto ai controlli. Anche se si tratta di effetti non macroscopici, uno dei dati positivi è che i benefici sembrano essere duraturi, dal momento che sono visibili dopo un anno.

Entrambi gli approcci saranno oggetto di ulteriori studi e approfondimenti. Per ora, ciò che si può dire è che la cura del Parkinson del futuro sembra avere un passaggio obbligato: quello dall’intestino.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 8 aprile 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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