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Ancora polemiche sul virus “ibrido”
creato in laboratorio a Boston

di Agnese Codignola

In un laboratorio dove si studiano virus che possono costituire un rischio per la salute umana, e quindi a un livello di sicurezza tra i più elevati (il Biosafety Level 3 o BL3, dopo il quale c’è solo il 4, per studi militari), un gruppo di ricercatori ha creato un coronavirus SARS-CoV-2 che non esiste in natura, cioè una chimera (si chiama così in termine tecnico) costituita dal “corpo” del ceppo originario di Wuhan (quello che ha avviato la pandemia di Covid), e dalla proteina spike della sua variante omicron (la proteina spike, lo ricordiamo, è quella che serve al coronavirus per agganciarsi alle cellule e poi entrare). Lo scopo era studiare a che cosa fosse dovuta la capacità, ormai evidente, delle varianti omicron di sfuggire agli anticorpi del sistema immunitario già sviluppati in seguito alla vaccinazione o alle infezioni con le varianti precedenti, e quali fossero i rapporti delle diverse parti del virus con la letalità dell’infezione, ovvero quali parti fossero o meno associate a una maggiore mortalità. Quel laboratorio è a Boston, nella locale università, e sta effettuando lo stesso tipo di esperimenti di cui, per mesi, sono stati accusati i laboratori di virologia dell’Università di Wuhan, in Cina. Esperimenti che sarebbero stati all’origine di una fuga accidentale di coronavirus chimerici infettivi per l’uomo, secondo una versione dei fatti ormai ritenuta priva di prove, al contrario di quella che individua, invece, l’origine del SARS-CoV-2 in un passaggio dagli animali all’uomo (spillover), avvenuto all’interno di un mercato di carni selvatiche (questa è considerata dalla stragrande maggioranza dei virologi l’ipotesi più plausibile, e supportata da prove).

Forse anche per questo la pubblicazione dei primi dati preliminari, in realtà molto interessanti, dello studio eseguito a Boston ha scatenato un putiferio, sulle riviste scientifiche e non solo: il gruppo di ricercatori dei National Emerging Infectious Diseases Laboratories della Boston University, guidato da Mohsan Saeed, è stato accusato di non aver riferito adeguatamente i dettagli del progetto al National Institute of Allergy and Infectious Diseases dei National Institutes of Health, che aveva finanziato parte del progetto, e che è deputato ad approvare questo tipo di esperimenti. L’Università ha risposto che non era tenuta a chiedere alcuna autorizzazione, perché il tipo di esperimenti fatti non lo richiede, e lo scontro sta andando avanti ancora in questi giorni, tra finezze burocratiche e acrobazie logiche di entrambe le parti.

Come ha riferito la rivista Science, immediatamente dopo la pubblicazione dei dati è esplosa la polemica su Twitter, con innumerevoli commenti di ricercatori che parlavano esplicitamente di follia e di irresponsabilità da parte dei colleghi, perché il virus creato racchiude in sé la massima mortalità – quella del ceppo di Wuhan – e la massima contagiosità – quella della variante omicron. Qualora sfuggisse dai BL3, è stato detto, sarebbero guai seri. I ricercatori di Boston hanno ribadito che i risultati (in attesa di revisione) sono stati invece molto utili, e hanno permesso di compiere un passo in avanti significativo nella conoscenza del coronavirus, che potrebbe a sua volta condurre a realizzare nuovi farmaci e vaccini specifici proprio contro le proteine che si sono rivelate più pericolose: quelle del corpo virale. Va anche considerato che in natura sono già apparse varianti chimeriche di SARS-CoV-2, perché mutare è nella natura dei virus, e nessuno si è preoccupato più di tanto.

Ma il problema sollevato da più parti è anche un altro: quali sono i limiti di questo tipo di ricerche, per definizione poco prevedibili? Chi deve vigilare, e approvare i progetti? E poi ha senso sottoporre questi ultimi a limiti e controlli?

Come ricostruisce ancora Science in un lungo articolo, la discussione sul cosiddetto Gain of Function o GOF, cioè su modifiche genetiche che possono amplificare certe caratteristiche degli organismi patogeni in modo da poterle studiare meglio, va avanti da più di dieci anni, negli Stati Uniti. Già alcuni studi sull’influenza aviaria del 2011 avevano portato a una moratoria di questi tipi di esperimenti, in seguito interrotta, e poi riattivata nel 2014, sempre dopo studi considerati rischiosi sui virus influenzali. Inoltre, in generale si dibatte su come gestire tutti i patogeni che potrebbero causare una pandemia, chiamati PPP da Potential Pandemic Pathogens e ci si chiede come sia meglio procedere. Parte della comunità scientifica, infatti, non ritiene praticabile, e neppure accettabile, un divieto assoluto, perché cozzerebbe contro la natura stessa della ricerca scientifica, e perché l’obbiettivo (trovare farmaci e vaccini per prevenire le pandemie e le epidemie) è più importante dei rischi, che teoricamente dovrebbero essere zero (ma il rischio zero non esiste, neppure per questi laboratori, strettissimamente controllati). Inoltre molte aziende private conducono gli stessi esperimenti con vincoli minori, e nella massima segretezza. 

D’altronde, molto concretamente, altri sottolineano che sarebbe comunque ben difficile delimitare il campo: proprio perché non si conosce il comportamento dei patogeni che si studiano e, tantomeno, quello delle loro versioni modificate, come si fa a stabilire che in un certo caso il rischio è troppo alto e in un altro è accettabile o assente? Sempre in teoria, anche un virus o un batterio totalmente innocuo potrebbero mutare e diventare pericolosi, così come potrebbe farlo una variante studiata anche senza GOF, o per altri motivi. Ma una soluzione va trovata, perché certamente c’è una situazione normativa non più adeguata alle possibilità offerte dalla scienza, e alle domande che si pongono in tutto il mondo, a fronte di minacce sempre più concrete di nuove pandemie.

Un altro esempio che aiuta a capire la complessità della situazione arriva da una malattia emersa pochi mesi fa, nella sua forma attuale: il vaiolo delle scimmie, considerato poco pericoloso perché non caratterizzato da un’elevata mortalità. Le stesse polemiche erano scoppiate qualche settimana fa per analoghi esperimenti condotti a Bethesda, nella sede centrale dei National Institutes of Health. In quel caso, se da una parte si sta ancora cercando di capire come mai il virus, noto da decenni, si sia diffuso in zone dove non era mai stato, e di verificare i danni a medio termine (in gran parte ignoti), dall’altra molti hanno subito fatto notare che si sta giocando con il fuoco, e che proprio perché non si è ancora capito che cosa sia successo, modificare quel virus, almeno per ora, è troppo pericoloso. D’altro canto, se non lo si studia a fondo, è impossibile vederci più chiaro. Un conundrum, come dicono gli anglosassoni, un enigma da cui non si sa come uscire, come è evidente dallo scambio di accuse e repliche in corso in questi giorni tra agenzie pubbliche, università, singoli ricercatori anche su quelle sperimentazioni.

Il progetto della Boston University, intanto, è al vaglio del National Science Advisory Board for Biosecurity (NSABB), ma la questione resta aperta, a prescindere dall’esito della specifica situazione.

L’Europa ha regolamenti più severi, ma è evidente che è necessario giungere a protocolli condivisi e obbligatori anche per le aziende a livello internazionale, che partano dagli aspetti fondamentali: quali sono le domande giuste da porre in una ricerca, e quali i mezzi che si intendono utilizzare per cercare di ottenere le risposte. Nuove norme sono attese, per gli Stati Uniti, entro la fine dell’anno, o all’inizio del 2023. E saranno fondamentali anche per orientare gli altri Paesi, dal momento che tutte le previsioni affermano che il futuro che ci aspetta sarà - purtroppo - popolato anche da nuove epidemie e pandemie, per affrontare le quali servono regole chiare.

 

Data ultimo aggiornamento 3 novembre 2022
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: coronavirus, Covid-19



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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