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Deludenti i risultati del plasma:
ha scarsi effetti anti-Covid

di Agnese Codignola

La terapia anti Covid basata sul plasma di chi è guarito dalla malattia (chiamato anche iperimmune) purtroppo non ha un effetto significativo sull’evoluzione del Covid, e andrebbe quindi accantonata. Dopo risultati analoghi emersi negli ultimi mesi, un ampio studio condotto negli Stati Uniti, i cui risultati sono stati pubblicati sull’autorevole New England Journal of Medicine, suggella infatti il fallimento di questo approccio, che tante speranze aveva destato nei mesi scorsi: nonostante contenga anticorpi specifici, il plasma dei guariti, per motivi ancora da chiarire, non aiuta altre persone che hanno contratto l’infezione da SARS-CoV-2 (il virus che provoca la malattia Covid-19).
Lo studio, chiamato Clinical Trial of COVID-19 Convalescent Plasma in Outpatients (C3PO) e patrocinato dal National Heart, Lung and Blood Institute (un centro dei National Institutes of Health statunitensi), è stato eseguito reclutando 511 persone che si erano rivolte al Pronto soccorso di 48 ospedali americani, a partire dall’agosto del 2020, per sintomi sospetti, e che avevano poi avuto la conferma dell’infezione tramite un tampone molecolare. L’età media era di 54 anni, e tutti avevano almeno un fattore di rischio quale l’obesità, l’ipertensione, il diabete o una malattia polmonare cronica. Poco più della metà erano donne, gli altri uomini.
Entro una settimana dalla diagnosi, a metà del campione è stato somministrato il plasma purificato e concentrato di altri pazienti ormai guariti, mentre alla metà di controllo una soluzione salina arricchita con vitamine, ma senza anticorpi. Lo scopo principale era verificare se, 15 giorni dopo, l’infusione di plasma avesse o meno influenzato il decorso della malattia, rendendola meno grave, ma la risposta è stata più che deludente: hanno avuto un peggioramento 77 pazienti del gruppo in terapia con il plasma (pari al 30% del totale) e 81 di quello di controllo (31,9%). La differenza non è considerata statisticamente significativa, ed è comunque  assai lontana da quel 10% che, all’inizio dello studio, era stato fissato come soglia minima di efficacia. Nell’arco di 30 giorni dall’inizio della sperimentazione, poi, è stata segnalata la morte di 5 pazienti del gruppo che aveva ricevuto il plasma, e di un paziente nel gruppo-placebo. Di fronte a risultati di questo tipo, lo studio è stato interrotto anzitempo, nel febbraio 2021. 

Mentre i ricercatori cercano di capire se la mancanza di efficacia sia dovuta a fattori correggibili quali, per esempio, una concentrazione insufficiente di anticorpi, o un timing di somministrazione non ottimale, sono comunque in corso, negli Stati Uniti e non solo, altre sperimentazioni con protocolli diversi, che prevedono, per esempio, la somministrazione a casa, oppure la verifica dell’effetto del plasma sulla guarigione di chi è in ospedale, con un accorciamento eventuale della durata del ricovero. Lo stesso New England Journal of Medicine sottolinea che precedenti studi avevano mostrato una riduzione della progressione della malattia in pazienti anziani trattati con il plasma entro 72 ore dall’insorgenza dei sintomi (curati, quindi, in modo molto precoce). Potrebbe insomma non essere ancora detta l’ultima parola, ma di certo la terapia con plasma iperimmune non sembra in grado di offrire quella soluzione definitiva che ancora oggi si sta cercando in ogni modo per curare chi ha contratto l’infezione e rischia di andare incontro a forme gravi o gravissime della malattia acuta.

Data ultimo aggiornamento 3 settembre 2021
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Luci e ombre del plasma la terapia che tutti cercano


Tags: coronavirus, Covid-19



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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