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Contro la retinite pigmentosa potrebbero arrivare due molecole del tutto innovative

Per ora si tratta di uno studio su modelli animali, ma se quanto dimostrato dai ricercatori della Case Western Reserve University di Cleveland, in Ohio, trovasse conferme anche nei pazienti, la cura della retinite pigmentosa potrebbe essere a un punto di svolta.

Il termine “retinite pigmentosa” racchiude addirittura 123 forme di una malattia abbastanza rara, provocata da alcune mutazioni genetiche, che porta inesorabilmente alla cecità. Ciò è dovuto al fatto che i difetti genetici esistenti causano una conformazione non corretta di una proteina fondamentale per la retina, la rodospina. Essendo la rodopsina non funzionante, le cellule della retina che la contengono via via muoiono, fino ad arrivare alla perdita totale della vista. Finora, le uniche cure sono basate su derivati della vitamina A chiamati retinoidi che, però, non sono molto efficaci e sono tossici, specie se somministrati a lungo. Partendo da questa situazione, i ricercatori hanno effettuato uno screening tra migliaia di potenziali molecole terapeutiche, alla ricerca dii farmaci che non appartenessero alla classe dei retinoidi, e che fossero un grado di legare la rodopsina mutata e di stabilizzarla, evitando che danneggiasse le cellule, e quindi l’intera retina. Ne hanno trovati due, che hanno poi sperimentato appunto su modelli animali delle diverse forme della malattia. Come riferito su PLoS Biology, i risultati hanno mostrato che le due molecole sono molto efficaci in 36 delle 123 forme controllate, compresa quella più comune: oltre a stabilizzare la rodopsina, proteggono la retina dai danni inferti dalla luce (un evento che si verifica tipicamente  nei malati) e di prolungare la vita dei fotorecettori, le proteine incaricate di ricevere gli stimoli luminosi e trasmetterli alla retina stessa.

Se gli stessi effetti si verificassero nell’uomo, contro la retinite pigmentosa si potrebbero avere farmaci del tutto nuovi, e molto più efficaci rispetto a quelli, insoddisfacenti, usati oggi. Gli studi vanno avanti.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 22 gennaio 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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