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C’è un antidepressivo non farmacologico molto attivo, e il suo nome è Beethoven

L’ascolto della musica classica agisce da antidepressivo, anche nei casi di depressione resistente alle terapie farmacologiche. Il legame è noto da tempo, ma ora è stato confermato, e ne è stato dimostrato il meccanismo d’azione, grazie a uno studio molto particolare, pubblicato su Cell Reports. In esso infatti i neurologi della Facoltà di medicina dell’Università di Shangai, in Cina, si sono avvalsi di 13 pazienti che avevano avuto l’impianto di elettrodi cerebrali profondi per curare una depressione che resisteva a qualunque altro trattamento. I ricercatori hanno sfruttato la situazione, ovviamente con il consenso dei diretti interessati, per studiare i tracciati della trasmissione elettrica di alcune zone del cervello durante l’ascolto di brani di musica classica che esprimevano due statio d’animo molto diversi, e cioè la sinfonia n° 6 di Tchaikovsky Symphony, che evoca tristezza e malinconia, e la sinfonia n° 7 di Beethoven, che descrive la gioia e l’eccitazione. Tutti hanno ascoltato playlist con otto brani che non avevano ascoltato nell’anno precedente per tre volte al giorno, ogni giorno per due settimane. Il risultato del confronto dei tracciati ha mostrato che la musica classica, di qualunque tipo, sincronizza le onde elettriche delle due aree coinvolte, e cioè la corteccia uditiva, che processa le informazioni sonore, e il circuito della ricompensa, responsabile del tono dell’umore. Grazie a questa armonizzazione della trasmissione nervosa si determina un chiaro miglioramento della depressione. Secondo gli autori, la scoperta è importante sia per i legami tra stimoli sensoriali e umore (sono già in programma stimoli di altri tipo, per esempio visivi o olfattivi) sia per la progettazione di strumenti appositi per la terapia non farmacologica della depressione.

Nel frattempo, ascoltare musica classica sembra fare bene a tutti i depressi, a prescindere dall’autore e dalla familiarità con questo genere di componimenti.

 

A.B.
Data ultimo aggiornamento 20 agosto 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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