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Dubbi sul vaccino alle persone immunodepresse, sì ai familiari

di Agnese Codignola

Come reagiscono alla vaccinazione anti-Covid le persone immunodepresse? La domanda è importante e riguarda milioni di persone nel mondo con un’immunodeficienza congenita, o con certe malattie autoimmuni, o, ancora, persone che hanno ricevuto un trapianto; infine, i pazienti sottoposti ad alcuni tipi di terapie oncologiche che li rendono immunodepressi, appunto. Non ci sono risposte chiare, per ora e anzi, emergono segnali contrastanti.

Quelli positivi giungono da Israele, sull’efficacia del vaccino di Pfizer/BionTech. I dati del grande gruppo assicurativo pubblico-privato Clalit, cui aderisce circa metà della popolazione israeliana, relativi a 1,4 milioni di persone vaccinate, mostrano segnali confortanti. Infatti i risultati, elaborati insieme agli epidemiologi di Harvard e pubblicati sul New England Journal of Medicine, mostrano, su poco meno di 700.000 persone vaccinate e colpite da altre patologie (130.000 delle quali confrontate con altrettante sane, della stessa età, non vaccinate), che l’efficacia, nelle persone con tre o più malattie, di qualunque età, è dell’88%, cioè di poco inferiore a quella ottenuta nelle persone senza patologie. Controllando le singole patologie, è emerso poi il quadro specifico, e cioè, per gli immunodepressi, un’efficacia dell’84%. La stessa, relativa alla prevenzione delle forme gravi, sale al 100%.

Un segnale simile è poi quello in arrivo dalla Gran Bretagna, perché due studi ancora in attesa di revisione, ma condotti dai ricercatori di Oxford e dall’ufficio nazionale di statistica su un totale di quasi 400.000 inglesi, confermano che anche solo dopo la prima dose la protezione è molto marcata a tutte le età. Essendo dati di popolazione reale, presumibilmente, comprendono anche quelli di persone con qualche altra malattia. 

Meno positivi sono invece i dati provenienti da un piccolo studio in attesa di revisione uscito su MedRXiv. I medici della School of Medicine dell’Università di Saint Louis (Stati Uniti) hanno analizzato 133 pazienti con una malattia infiammatoria cronica (per esempio colite ulcerosa, psoriasi, sclerosi multipla, lupus e così via), in terapia immunosoppressiva, e una cinquantina di persone sane, tutti immunizzati con vaccini a mRNA. Dopo aver completato anche la seconda dose, gli immunodepressi avevano una produzione di immunoglobuline (anticorpi) IgG e una capacità neutralizzante ridotta di tre volte rispetto agli altri. La risposta meno efficiente è apparsa nei pazienti curati con gli usatissimi glucorticoidi, mentre con altri farmaci come il metotrexate il calo è risultato leggermente meno drastico. Meno sensibili, invece, le persone sottoposte a terapie più specifiche, come quelle contro singole citochine (molecole prodotte dal sistema immunitario): per esempio gli anti-TNF alfa, o gli anti-interleuchine 12/23.

Dati analoghi giungono da uno studio tedesco, anch’esso in attesa di revisione, su 40 immunodepressi perché trapiantati: solo uno aveva sviluppato anticorpi specifici contro il Covid, anche se questo non stupisce, perché l’immunosoppressione realizzata in quei casi è profonda. Un altro studio su oltre 400 trapiantati vaccinati con una dose di vaccino a mRNA, uscito sulla rivista scientifica JAMA, aveva dato risultati simili: solo il 17% aveva sviluppato anticorpi.

Sul versante opposto, uno studio su 33 persone con la malattia di Crohn o la colite ulcerosa ha mostrato una buona risposta allo stesso vaccino.

Ora sono ai nastri di partenza diversi altri studi, per capire meglio chi può rispondere, e come trattare chi non lo fa a seconda della terapia e della malattia. Ci vorrà del tempo, perché le variabili sono numerosissime. Intanto, tutti gli esperti sono concordi: il vaccino anti-Covid è fondamentale per chi vive con gli immunodepressi, di tutte le età.

Data ultimo aggiornamento 7 maggio 2021
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Donne vaccinate in gravidanza trasmettono gli anticorpi ai figli


Tags: coronavirus, Covid-19



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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