TECNOLOGIA
Senza gambe e con 3 dita delle mani
Al via la scalata "impossibile"
A fine agosto Andrea Lanfri, atleta della Nazionale Paralimipica Italiana, tenterà di conquistare la Cima Grande di Lavaredo, nelle Dolomiti. Utilizzerà i pollici e due protesi speciali . È il primo atleta di paraclimbing amputato ai quattro arti

di Maria Santoro
«Quando uomini e montagne si incontrano, grandi cose accadono», scriveva il poeta romantico inglese William Blake. Qualcosa di grande accadrà per davvero, a fine agosto: Andrea Lanfri, atleta della Nazionale Paralimipica Italiana di atletica leggera (11 titoli italiani), tenterà la scalata della Cima Grande di Lavaredo, nel cuore delle Dolomiti di Sesto, tra la provincia di Belluno e quella di Bolzano (clicca qui per vedere la fotogallery). Scalerà una cima "frequentata" dal gotha dell’alpinismo internazionale, con tre dita e senza le sue gambe. Utilizzando i pollici e due protesi speciali perfezionate in lunghi mesi di allenamento. Andrea è il primo atleta di para-climbing amputato ai quattro arti.
LA STORIA - Nato a Lucca il 26 novembre1986, Andrea Lanfri è record italiano dei 100, 200 e 400 metri. Oggi corre con il gruppo sportivo delle Fiamme Azzurre e si prepara alle prossime olimpiadi di Tokyo 2020. L’esordio su pista è del 2015, successivamente alla bi-amputazione delle gambe e sette dita delle mani a causa di una meningite fulminante con sepsi meningococcica. Ha vissuto in coma per un mese, con necrosi ai piedi e agli avambracci. Dopo una settimana di coma farmacologico per la resezione degli arti, si è risvegliato con la voglia di correre e di non fermarsi più.
LA PASSIONE - Frequentava la montagna già in tenerissima età, via via crescendo ha iniziato a fare passeggiate, percorrere lunghi sentieri e praticare trekking. «Ho spostato ogni anno l’asticella in avanti, prima in Toscana poi sulle Dolomiti – racconta. – Le ferrate sono arrivate a 19 anni; infine l’arrampicata sportiva: la più bella è del 2015 in Val d’Aosta, al Pilastro Lomasti». Oggi si prepara trepidante a questa nuova avventura sulla Cima Grande. L’impresa ha il sapore della sfida e di una buona rivincita sul destino: «Dopo la meningite, ho ripreso in mano i miei sogni – afferma. - La cima era nel mirino anche prima della malattia, ma per qualche motivo è stata sempre rinviata». È stato dimesso dall’ospedale a giugno 2015, le prime protesi per camminare le ha calzate in agosto, a settembre aveva già provato ad arrampicare, tanta la forza e voglia di vivere. «Fu un fallimento, però – continua – sia a causa delle protesi che indossavo allora, inadeguate all’attività, sia perché il mio corpo era debilitato dalla malattia: pesavo appena 40 chili e l’equilibrio stentava». Andrea ha successivamente provato il sentiero del Monte Prado sull’Appennino, riuscendo però a percorrerlo soltanto in parte: «A quel punto era obbligatorio per me fare un piccolo passo indietro, ricominciare quasi da capo su sentieri vicino a casa e con poco dislivello – racconta. – Durante l’inverno ho iniziato la corsa e poco dopo ho riprovato la salita del Monte Procinto». Ce l’ha fatta, ma con uno sforzo disumano: «Si vedevano le scintille in parete – sottolinea. – Mi attaccavo a tutto pur di non mollare». In ripresa anche le ferrate, ma la svolta è avvenuta in Friuli Venezia Giulia. Decisivo è stato, in particolare, l’incontro a Fiume Veneto con l’ingegnere biomedico Marco Avaro e la tecnologia di stampa in 3D: «Avevo appuntamento con lui per la realizzazione delle staffe in carbonio – ricorda – quando ha intravvisto tra i miei bagagli il kit da ferrata e mi ha subito proposto “due tiri di corda” sulla falesia della Val Colvera». Andrea non aveva portato con sé i “piedi giusti”, così il professor Avaro ne ha recuperati un paio dal reparto: «Erano piccoli – afferma Andrea. – Con quelli la mia performance in parete è subito migliorata, e di molto. Da lì ho ho iniziato a ragionare su quali modifiche apportare alle mie protesi». Dal 2017 Andrea arrampica tutte le domeniche, ed è riuscito a ritornare in Corsica sul Monte Bertonze.
LE NUOVE PROTESI - «Avere le mani sarebbe tanto – dice scherzandoci su. - Per il paraclimbing non esistono protesi, perché chi arrampica senza una o due gambe utilizza il moncone come appoggio. Io, invece, ho una situazione completamente diversa, avendo perso anche 7 dita delle mani, e non posso farcela soltanto con i due pollici, devo scaricare il 95% del peso corporeo sui piedi». Andrea ha bisogno di protesi particolari e sicure, che lui stesso “arrangia” alle sue esigenze sportive. Tutto ancora è in fase di sperimentazione ma per l’impresa della Cima Grande i dettagli che ha curato personalmente gli consentiranno di salire senza timori. Dall’incontro con Avaro, ha deciso di abbassare di molto la sua altezza, quindi il baricentro, ridurre l’angolo di chiusura del ginocchio, scavare un po’ di più l’invaso: «Indosso un piede piccolo, numero 34, molto rigido, non idoneo al cammino, con inclinazione interna – spiega. - Un doppio sistema di tenuta composto da anelli e ginocchiera previene l’eventuale perdita dell’arto artificiale in salita». Non sono soltanto queste le sperimentazioni che Andrea studia: «Sto facendo inoltre una piastrina di acciaio, che sostituisce il piede di carbonio, a forma di rombo, per pareti più difficili – commenta. – I piedi sarebbero più stretti e più piccoli, ma ancora devo testarli, non credo li porterò alla Cima Grande di Lavaredo». È una continua corsa al perfezionamento degli strumenti necessari, per questo non sono pochi i “piedi” sfibrati o spaccati in allenamento (sinora due paia). La lama piatta si rompe perché non è costruita per essere utilizzata solo in punta: «Anche infilando piedacci, quelli delle protesi provvisorie, la spesa non è inferiore ai 300-500 euro, mentre le protesi in carbonio da cammino e corsa costano 3500 euro - ricorda. – Sarebbe bello poter contare sull’aiuto degli sponsor». Andrea è seguito dall’ortopedia di Lucca, per le sue prove sulle protesi ricorre anche all’acquisto di pezzi sulla piattaforma online e-bay America: «Mi arrangio, assemblo e provo – dice. - Taglio i piedi che ho a disposizione con il flessibile e faccio le mie modifiche».
CIMA GRANDE DI LAVAREDO - «La vedevo in un quadro a casa di mia madre, la guardavo e mi sembrava davvero qualcosa di spaziale». L’impresa, che si svolgerà dal 28 al 31 agosto, è stata preparata accuratamente. Il 16 e 17 giugno sono state realizzate le riprese con il drone e percorse un terzo delle vie: la “normale” aperta nel 1908 e Spigolo Dibona. Andrea salirà a 2998 metri subito dopo gli Europei di atletica a Berlino, e tenterà la scalata assieme al gruppo di amici “Malati di Roccia”. Partirà a quota 2320 con un dislivello complessivo di 700 metri: «La mia fidanzata Natascia è il pilota del drone, ha già fatto alcune riprese ma il primo giorno di salita sarà in cordata con me – spiega. – Percorreremo la via Normale, con telecamere e il fotografo Andrea Puviani». Il secondo giorno faranno delle riprese dall’alto e il terzo il gruppo si dedicherà allo Spigolo Dibona: «In realtà, soltanto io e altri due amici (David e Gabriele) – continua - mentre Natascia starà sotto la parete per filmare tutto con il drone, fino a 150 metri, infine la cordata scenderà per la via Normale». Tutto il materiale, filmati e foto sarà utilizzato per realizzare un docufilm di 30 minuti che girerà le sale d’Italia.
MONTAGNA, PASSIONE…E AMORE - Andrea e Natascia si sono conosciuti dopo la malattia. Lei lo seguiva a sua insaputa su Instagram, poi un bel giorno si sono incontrati. Dove? In montagna: «Ci piacciono le stesse cose, l’arrampicata, il trekking e le moto – confessa Andrea. – È una persona speciale che mi supporta e sopporta sempre, una presenza fondamentale che riesce a infondermi energia, serenità e voglia di raggiungere i miei obiettivi».
I SOGNI - «Se puoi sognarlo, puoi farlo», diceva Walt Disney. Andrea non si fermerà alla Cima Grande di Lavaredo, il suo desiderio più grande si chiama “El Capitan” nel parco nazionale di Yosemite, dalla quale è nata tutta la cultura del big wall climbing: «Si tratterebbe di un’arrampicata artificiale, che in Italia non è molto praticata – afferma. – Quattro o cinque giorni in parete: per questo avrei bisogno di guide, di qualcuno che conosca il posto. Se me lo propongono ci vado subito». Per lui arrampicare significa libertà: «In parete ci sono solo io, senza pensieri, libero con le mie sfide personali – conclude. – Arrivare in cima è una soddisfazione insuperabile, ti senti padrone del mondo. In fondo dovevo essere morto e invece sono qui a vedere un’alba stupenda».
(© foto Andrea Puviani)
Data ultimo aggiornamento 14 luglio 2018
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