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Dalle nuove terapie anticancro
un aiuto per studiare il lupus


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Il lupus eritematoso sistemico o LES, malattia autoimmunitaria che interessa la pelle e molti organi interni (contro la quale, oggi, esistono solo terapie non specifiche), potrebbe presto essere affrontata con un approccio del tutto nuovo che arriva dall’oncologia e, più precisamente, dall’immunoterapia oncologica. I ricercatori dell’Università di Yale di New Haven (Connecticut, USA) hanno infatti pubblicato sulla rivista Science Traslational Medicine quanto osservato sugli animali da laboratorio, studiati per verificare il ruolo di una proteina chiamata "PD 1 homolog" o "PD 1H". Questa molecola è molto simile alla proteina "PD 1", che viene presa a bersaglio dai cosiddetti inibitori di checkpoint, cioè dagli anticorpi monoclonaliGli anticorpi monoclonali sono anticorpi del tutto simili a quelli che il sistema immunitario produce contro i “nemici” (batteri, virus e altro ancora), ma non sono presenti in modo naturale nel nostro organismo. Vengono creati in laboratorio, grazie a tecniche di ingegneria genetica, e sono mirati contro un preciso bersaglio della malattia, identificato dai ricercatori: per esempio, nel caso del Covid, contro la proteina Spike, utilizzata dal coronavirus per entrare nelle cellule e infettarle. Una volta prodotti, vengono fatti moltiplicare in laboratorio, identici, in un numero grandissimo di copie, o di cloni (per questo vengono chiamati monoclonali), e poi immessi nell’organismo del paziente, in genere tramite infusione (endovena). che hanno rivoluzionato il trattamenti di alcuni tumori.
Questi farmaci sono diretti contro la proteina "PD 1" perché questa molecola blocca, per complessi meccanismi (scoperti solo recentemente), il sistema immunitario (in termine tecnico, si dice che funge da checkpoint) e dunque rende poco efficace la sua azione contro i tumori. In questa situazione, se si riesce a inibire, con farmaci appositi, la "PD 1", vengono riattivate le difese dell’organismo contro il cancro.

I ricercatori dell’Università di Yale si sono accorti che, nel caso del lupus, avviene esattamente il contrario: l’effetto della proteina "PD 1 homolog", cioè, che frena il sistema immunitario, attenua anche la malattia. Per verificare il ruolo della "PD 1homolog" (già nota e già studiata in chiave antitumorale, senza successo), gli studiosi hanno creato, tramite l’ingegneria genetica, animali da laboratorio che non la esprimono, e hanno visto che questi animali sviluppano molti dei sintomi tipici dei due principali tipi di lupus, quello cutaneo e quello sistemico. Inoltre la "PD 1homolog" sembra essere specifica per il lupus e non per altre patologie autoimmuni, che non si sviluppano quando manca o non è attiva. La conclusione è quindi che, con ogni probabilità, nel lupus la "PD 1 homolog" non funziona a dovere. Dunque, sostengono i ricercatori, una terapia che abbia come scopo il suo ripristino potrebbe essere efficace e selettiva.

A.C.
Data ultimo aggiornamento 25 ottobre 2019
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: immunoterapia oncologica, ingegneria genetica, lupus eritematoso sistemico, PD1



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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