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L’artrite reumatoide ha una sua "firma"
che potrebbe favorire le diagnosi precoci

La diagnosi di artrite reumatoide, malattia autoimmunitaria che colpisce a tutte le età, compresa quella più avanzata (a differenza di altre malattie autoimmuni), potrebbe arrivare prima di quanto non accada oggi. E sarebbe un bene, perché probabilmente sarebbe possibile preservare l’integrità di tessuti e organi dall’attacco degli autoanticorpi e, al tempo stesso, evitare che i pazienti soffrano i doloro tipici della malattia, e che le loro articolazioni di deformino. La speranza giunge da uno studio pubblicato su EBioMedicine, nel quale i reumatologi dell’Università di Birmingham, in Gran Bretagna, hanno esaminato attentamente le diverse popolazioni di cellule del sistema immunitario e alcune loro caratteristiche di oltre 220 persone, una settantina delle quali controlli sani. I patecipanti avevano una malattia in stadi differenti, da quelli iniziali a quelli più gravi e avanzati e un’età media attorno ai cinquant’anni. Il risultato delle analisi è stato chiaro, e positivo, perché ha mostrato che il sistema immunitario di chi si ammala invecchia molto precocemente, e lo si vede già alla prima comparsa dei sintomi. Nello specifico, ci sono meno linfociti T di nuova creazione, provenienti dal timo, concentrazioni elevate di marcatori dell’infiammazione attiva come l’interleuchina 6, la proteina C reattiva e l’interferone alfa, più linfociti T senescenti (con alcune caratteristiche che li fanno definire invecchiati) e T reg, anch’essi tipici dell’invecchiamento immunitario, come pure più interleuchina 17, altro segno tipico di invecchiamento cellulare.

Tutto ciò compone un quadro coerente, che potrebbe essere utilizzato ai primi sintomi per verificare o smentire la diagnosi con un semplice esame del sangue, eventualmente da rinforzare con altre indagini. Gli studi proseguono per confermare l’ipotesi e giungere - si spera in tempi rapidi - a un test che possa diventare routinario e applicabile a chiunque, in caso di dubbio.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 24 settembre 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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