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Isolata una molecola
che "avvia" l’artrite reumatoide

Risultati importanti ottenuti dai ricercatori dell’Università Cattolica-Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, in collaborazione con l’università di Glasgow (Scozia). Un piccolo frammento di RNA (un acido nucleico, come il DNA), chiamato miR34a, appare implicato nella catena di reazioni che, in pazienti predisposti, portano le cellule del sistema immunitario (in particolare, le cellule dendritiche) ad aggredire, per errore, le articolazioni, scatenando l’artrite reumatoide: una delle malattie autoimmuni più frequenti, soprattutto tra le donne. Come scrive il quotidiano La Repubblica, questa scoperta potrà aprire nuove frontiere terapeutiche per controllare e frenare la patologia. Ecco l’articolo, firmato da Sara Pero.       

SI CHIAMA miR34a la molecola che agirebbe da interruttore molecolare nell’artrite reumatoide, una malattia infiammatoria cronica che colpisce primariamente le articolazioni diartroidiali, ovvero mobili, soprattutto mani, piedi, ginocchia, polsi e caviglie, che nel tempo si deformano, diventando dolenti e tumefatte. La scoperta che porta con sé il sapore di una possibile soluzione terapeutica a questa malattia, peraltro anchilosante, proviene da un gruppo di ricerca dell’università Cattolica-Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, in collaborazione con l’università scozzese di Glasgow. Le cellule dendritiche, uno dei tipi cellulari coinvolti in questa patologia, si attivano, ’credendo’ di dover eradicare la ’malattia’. « In questo studio – racconta Gianfranco Ferraccioli, direttore dell’area reumatologia, allergologia e dermatologia del Policlinico Gemelli - ci siamo concentrati sull’attivazione delle cellule dendritiche, innescata dall’iper-produzione della molecola miR34a, osservazione confermata dalle analisi del sangue e dei tessuti ottenute da pazienti con artrite».

Le cause. «Sappiamo ormai da 20-30 anni - precisa Ferraccioli - che questa malattia è causata soltanto per il 50-60% circa dai molteplici fattori genetici. Un 40-50% dipende dunque da altri fattori, specialmente quelli ambientali. Tra questi, quelli maggiormente coinvolti nell’insorgenza della malattia sono il fumo, l’obesità e le infezioni, quindi tutti quei fattori ambientali che giocano un ruolo sorprendentemente importante, aumentando spesso il rischio anche in soggetti non particolarmente predisposti geneticamente. Per chiarire quanto vi sia di effetto dei fattori ambientali sul DNA, abbiamo studiato fattori epigenetici, ossia fattori che per effetto dell’ambiente possono influire sul DNA umano favorendo o spegnendo malattie». Progressiva e debilitante, questa patologia autoimmune colpisce circa l’1% della popolazione – soprattutto le donne – e insorge solitamente tra i 40-50 anni d’età.

I farmaci in commercio. «Spesso i farmaci utilizzati attualmente non sono efficaci perché hanno un’azione o molto generalizzata o troppo specifica, tipicamente per una sola popolazione cellulare. Invece oggi sappiamo che, nell’uomo, l’artrite reumatoide può riguardare l’attivazione anomala di almeno 4 o 5 popolazioni cellulari: le cellule T, B, le cellule dendritiche, i monociti-macrofagi e i fibroblasti. Per questo servirebbe una terapia personalizzata, in modo da poter intervenire con farmaci più mirati». Oltre alla specificità, è molto importante il fattore tempo: per riuscire a combattere la malattia, meglio intervenire quanto prima, perché è più facile individuare la popolazione cellulare coinvolta.

La strategia. Se ’presa in tempo’ e con oculate strategie terapeutiche, sintomi come gonfiori e tumefazioni, dovrebbero scomparire. E questo, lo dimostra lo studio: «Abbiamo poi sviluppato un modello sperimentale murino per dimostrare l’effettivo ruolo di miR34a, ed abbiamo constatato che non compare artrite nei topi in cui il gene che produce quella molecola veniva deleto. Questo significa che spegnendo l’attività di miR34a, è possibile spegnere l’artrite. Dunque abbiamo individuato un bersaglio per poter spegnere l’interruttore di una grave forma di artrite progressiva». Queste strategie terapeutiche consistono nell’introduzione di specifiche molecole all’interno dei tessuti danneggiati, con lo scopo di agire da antagonisti di miR34a, limitandone così il suo ruolo di interruttore molecolare. «Ci auguriamo – conclude Ferraccioli - che avendo definito un possibile bersaglio di intervento sia possibile avere presto a disposizione l’arma per spegnere l’interruttore».

Data ultimo aggiornamento 5 agosto 2017
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • Proteina aiuta a capire quanto è aggressiva la malattia



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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