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Troppe disparità nella ricerca,
trascurati gli afro-americani

di Valeria Camia

Da sempre, negli Stati Uniti e nei Paesi europei, la ricerca oncologica si concentra sulla popolazione bianca, per varie ragioni: soprattutto - come ha scritto recentemente il New York Times - “perché tende a essere condotta in centri ospedalieri con abbondanti risorse, che si occupano soprattutto di pazienti bianchi e più ricchi”. Tutto questo ha portato a sottovalutare e, in ogni caso, a curare peggio certe forme di cancro che colpiscono in modo diverso le popolazioni nere, ispaniche e asiatiche. In particolare i neri americani - sempre secondo i dati del New York Times - hanno negli Stati Uniti il più alto tasso di mortalità, rispetto a qualsiasi altro gruppo razziale per la maggior parte dei tumori. Un divario che appare ingiusto da accettare e che comincia a suscitare reazioni forti da parte della comunità scientifica. Capofila di un progetto per invertire questa tendenza e “coprire” le zone d’ombra è Harold Varmus, premio Nobel per la medicina nel 1989 e presidente del Genome Center Cancer Group (GCCG) di New York. L’abbiamo raggiunto telefonicamente.

Professor Varmus, in che modo si manifesta lo “sbilanciamento” razziale (se possiamo chiamarlo così) nelle patologie oncologiche?

«Negli ultimi decenni - risponde il Premio Nobel - vari studi hanno dimostrato che l’appartenenza etnica svolge un ruolo importante sull’incidenza del cancro, sulla sopravvivenza, sulla risposta ai farmaci, sulle vie molecolari e sull’epigenetica (cioè sul modo in cui l’ambiente influenza l’espressione del DNA, ndr). Per quanto riguarda le differenze etniche nei meccanismi molecolari del cancro, un esempio ben documentato riguarda la proteina TP53, che è nota per la sua capacità di sopprimere i tumori, controllando l’arresto della crescita cellulare e l’apoptosi (cioè il suicidio programmato delle cellule). Ebbene, si è scoperto che la TP53 differisce tra etnie diverse.
Dunque oggi sappiamo che, insieme a molti altri fattori, come le disuguaglianze nella qualità dell’assistenza sanitaria e l’esposizione a certi agenti esterni, l’etnia influenza il cancro. Tuttavia non è mai stata condotta una ricerca inclusiva e completa della genomica dei tumori. Questo perché la maggior parte della ricerca sul cancro e gli studi clinici sono stati condotti, come si diceva, su popolazioni bianche, producendo una situazione di disparità nelle conoscenze della prevalenza di diversi tipi di patologie oncologiche in determinate etnie, così come nelle risposte dei pazienti alle diverse terapie contro il cancro e i livelli di sopravvivenza».

Che cosa si può fare, concretamente, per invertire questa tendenza?

«L’eliminazione di queste disparità nella ricerca è di grande importanza, non solo perché la demografia della popolazione è in costante evoluzione e le spese mediche potrebbero essere ridotte con una mappatura più accurata. L’eliminazione di queste disparità è anche una questione di giustizia sociale: si tratta di democratizzare e ampliare l’accesso al potenziale della genomica del cancro. In questa direzione va un’iniziativa chiamata Polyethnic-1000, per indagare, appunto, sulla varietà di tumori esaminando il ruolo della razza e dell’etnia nei principali tipi di cancro. A sostegno delle ricerche sono state assegnate sei borse di studio dal New York Genome Center (NYGC), un’istituzione di ricerca accademica, indipendente, senza scopo di lucro, che funge da hub multi-istituzionale per la ricerca genomica. Ma anche aziende private avranno prevedibilmente spazio nel progetto in una fase successiva: d’altra parte, è nel loro interesse che il bacino di utenza sia quanto più vasto, anche per massimizzare i profitti».

Ci parli più in dettaglio di Polyethnic-1000...

«Il progetto prevede la collaborazione di istituti di ricerca, ma anche di ospedali nella città di New York (the greater New York area), affinché sia creata una piattaforma di ricerca dinamica, che promette di migliorare i modi in cui il cancro viene prevenuto, diagnosticato e trattato, a partire dall’uso della genomica per tutti i pazienti, e includendo quanti più gruppi etnici possibili. L’idea è proprio quella di accrescere gli sforzi non solo accademici, ma anche della comunità, là dove lo studio dei modi in cui le malattie sono influenzate dall’etnia (così come dallo stile di vita e dall’accesso all’assistenza sanitaria, per esempio) richiede la raccolta di dati nel corso degli anni e interazione con la comunità tutta». 

Parteciperanno i pazienti (anche quelli delle etnie più trascurate) a questa ricerca, dando l’assenso per la condivisione dei loro dati?  

«Sono ottimista. Il New York Genome Center recluterà pazienti per eseguire il sequenziamento completo del DNA e dell’RNA (la molecola che converte le informazioni genetiche del DNA in proteine, ndr) delle cellule tumorali e di quelle sane, per identificare le differenze tra le etnie che possono spiegare le disparità etniche del cancro. È un progetto molto significativo , e mi aspetto una risposta positiva da parte delle persone».

Data ultimo aggiornamento 4 novembre 2020
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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