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C’è una terapia anti-ictus che potrebbe
ridurre la disabilità ma viene poco utilizzata

Una ricostruzione al computer di come si può formare un trombo costituito da globuli rossi, piastrine e filamenti proteici di fibrina (foto dell’agenzia iStock)

di Benedetta Bianco

Dal 2014 una nuova arma è a disposizione dei medici per la terapia dell’ictus ischemico: è la trombectomia meccanica, che consiste nella rimozione (meccanica appunto, per via endovascolare) del trombo che chiude uno dei vasi sanguigni del cervello, creando danni anche gravissimi. In pratica un catetere sottilissimo, scorrendo su una guida precedentemente inserita e attentamente monitorata nel suo percorso (tramite i raggi X), raggiunge nel cervello il trombo responsabile dell’ictus e lo aspira, liberando il vaso sanguigno ostruito. Questo approccio terapeutico, se effettuato in maniera tempestiva, si è dimostrato efficace nel ridurre fortemente la disabilità residua dopo un ictus. Eppure la trombectomia meccanica non trova ancora una vasta diffusione, specialmente in Italia, ma anche in Paesi come gli Stati Uniti, molto avanzati dal punto di vista tecnologico e sanitario. I motivi sono principalmente due: mancanza di un numero adeguato di Stroke Unit (centri attrezzati per effettuarlo), e scarsità di personale medico specializzato pronto a intervenire 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno, in tempi rapidissimi (la trombectomia meccanica richiede un’équipe con diverse figure professionali, tutte di alto livello).

La mortalità per ictus è del 20-30% a 30 giorni dall’evento e del 40-50% a distanza di un anno, mentre il 75% dei pazienti sopravvissuti presenta qualche forma di disabilità, che nella metà dei casi comporta perdita dell’autosufficienza. In tutto il mondo, circa 15 milioni di persone sono colpite ogni anno da ictus: rappresenta la seconda causa di morte e la terza di disabilità. In Europa, secondo i dati rilasciati nella quinta edizione dello European Cardiovascular Disease Statistics, l’ictus provoca il 9% dei decessi tra gli uomini e il 13% tra le donne. Purtroppo, si stima che il numero di persone colpite ogni anno aumenterà ulteriormente nel prossimo futuro, con l’avanzamento dell’età media della popolazione (l’ictus è più frequente, statisticamente, nelle persone anziane): significherebbe un forte incremento anche dei costi sanitari legati alla gestione della malattia, che in Europa sono già stimati in 60 miliardi di euro e potrebbero arrivare a 80-90 miliardi.

L’ictus, come dicevamo, è un’ostruzione a livello cerebrale delle arterie che garantiscono il corretto flusso di sangue. Quando ciò accade, le aree che si trovano oltre il blocco non vengono irrorate a sufficienza e vanno quindi incontro a morte cellulare. I sintomi sono abbastanza evidenti e improvvisi: forte mal di testa, impossibilità o difficoltà a muovere braccio e gamba, perdita di sensibilità a un arto, difficoltà a parlare, visione doppia (o perdita completa di visione da un occhio), paralisi o semiparalisi di una parte del viso. Si tratta di una patologia tempo-dipendente: si calcola che per ogni minuto di ischemia, muoiano più di 2 milioni di neuroni. La tempestività dell’intervento è perciò fondamentale. 

L’unica cura possibile per l’ictus è la rimozione del coagulo che causa l’ostruzione. Ciò può avvenire secondo due modalità: la prima è un intervento farmacologico volto a sciogliere il coagulo, la cosiddetta trombolisi endovenosa; la seconda, disponibile da pochi anni, è appunto la trombectomia meccanica endovascolare. La scelta di quale tecnica utilizzare, laddove è possibile, dipende anche dalle dimensioni e dalla localizzazione dell’ostruzione. Secondo gli esperti, circa il 20-30% degli ictus è causato da trombi di grandi dimensioni: in questi casi, la trombolisi è poco efficace e la rimozione meccanica è l’intervento più indicato, purché il tutto avvenga nell’arco di poche ore. Il fattore tempo, lo dicevamo, è centrale nella terapia dell’ictus. 

L’innovazione della trombectomia è stata accolta con entusiasmo, ma la sua implementazione su larga scala rappresenta una sfida enorme, dal punto di vista econommico e organizzativo. Secondo un articolo del New York Times pubblicato a marzo 2023, attualmente negli Stati Uniti vengono effettuate circa 60.000 trombectomie all’anno, ma il numero complessivo di americani che potrebbero beneficiarne è almeno il doppio. In una situazione simile si trova anche l’Italia, dove vengono sottoposti a questi interventi meno di 4 pazienti su dieci fra coloro che ne avrebbero bisogno. L’ostacolo non riguarda tanto la procedura in sé, per la quale comunque sono necessarie delle figure specializzate ancora molto poco diffuse, ma sta soprattutto nel renderla disponibile per le persone nei tempi richiesti, cosa che potrebbe richiedere un ripensamento radicale del sistema sanitario e della gestione delle emergenze a tutti i livelli.

«La trombectomia è una procedura d’urgenza estremamente specialistica e molto costosa - spiega ad AssedioBianco Danilo Quarta, medico chirurgo specialista in anestesia, rianimazione e terapia del dolore presso la Asl Città di Torino e docente presso l’Università del capoluogo piemontese. - Se ci riferiamo all’Italia, rendere questo tipo di interventi largamente diffusi appare inimmaginabile dal punto di vista organizzativo, a prescindere dal fatto che possa essere migliore o meno della trombolisi: come si sa, purtroppo mancano medici, posti letto e finanziamenti. La sanità privata, dal canto suo, non si imbarcherà mai in trattamenti d’urgenza, perché non sono fonte di guadagno. La trombolisi, invece - aggiunge Quarta - è meno invasiva e meno costosa, e non richiede figure così specialistiche. Si è riusciti ad implementarla in maniera più diffusa, anche se non è stato possibile attivare le Stroke Unit in tutti quegli ospedali che mancavano di un reparto di neurologia e di rianimazione».

MOLTO DIPENDE DAL CODICE POSTALE... - Un recente rapporto della Britain’s Stroke Association ha rilevato che i residenti di Londra colpiti da ictus hanno una probabilità otto volte maggiore di essere curati con una trombectomia (in molti casi risolutiva), rispetto a coloro che abitano in altre zone, con un diverso codice postale, e tali disparità si rispecchiano in quasi tutti i Paesi, dagli Stati Uniti alla Svizzera. Per quest’ultima, ad esempio, sono attualmente attivi otto Stroke Center autorizzati ad effettuare anche trombectomie: considerando che la popolazione del Paese ha superato gli 8,5 milioni di abitanti, ogni ospedale deve servire un bacino di oltre un milione di persone. Ciò significa anche che alcuni dei pazienti meno fortunati dovranno fare molta strada per raggiungere uno dei centri, anche se, considerata l’estensione della Svizzera, la situazione sembra migliore rispetto a quella italiana.

In Italia, infatti, sono ancora troppo poche le Unità Neurovascolari nelle quali è possibile effettuare trombolisi e trombectomia: per garantire terapie adeguate a tutti i pazienti servirebbero 300 Stroke Unit in tutto il Paese, ma al momento, secondo i dati della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (Gise), ce ne sono soltanto 190 circa. In più, la loro distribuzione è anche molto disomogenea: l’80% si trova al Nord, una situazione che penalizza fortemente i pazienti del Centro e Sud Italia. Le Stroke Unit italiane hanno poi importanti problemi organizzativi, basati soprattutto sulle risorse umane, che in certi casi non ne consentono un’attività 24 ore su 24, come invece prevede il decreto del Ministero della Salute italiano n. 70 del 2 aprile 2015. 

AUSTRALIA AL TOP - Tornando alla trombectomia, da un recente sondaggio condotto su 59 Paesi è emerso che l’Australia ha il più alto tasso complessivo di accesso a questa tecnica, pari al 46% dei pazienti che ne avrebbero bisogno: un valore ben al di sopra del tasso medio di accesso per i Paesi ad alto reddito, che si attesta intorno al 23%. Per quelli a medio e basso reddito, invece, il tasso di accesso si ferma molto al di sotto, appena allo 0,48%.

Data ultimo aggiornamento 21 luglio 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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