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Alzheimer e carenza di litio: la strana coppia che potrebbe rivoluzionare la terapia

E se una delle cause principali della neurodegenerazione tipica della demenza di Alzheimer fosse una carenza di litio? La domanda sorge dai risultati di uno studio molto interessante pubblicato su Nature, nel quale una serie di dati di laboratorio, clinici e su modelli animali vanno tutti in questa direzione, e spiegano anche diversi risultati degli ultimi anni finora poco comprensibili.

Il litio è un metallo naturalmente presente nell’organismo umano, e proposto fino dalla fine dell’Ottocento come tonico e stabilizzatore dell’umore. Dagli anni Settanta ha conosciuto una nuova vita come farmaco per il disturbo bipolare, e già nei pazienti che lo utilizzano si era notato un rallentamento del declino cognitivo tipico dell’età, mai spiegato. Inoltre si era visto che nelle zone dove le acque potabili contenevano tracce di litio, l’incidenza della demenza era inferiore alla media.

Per chiarire meglio il suo ruolo nel cervello, i ricercatori dell’istituto di genetica dell’università di Harvard hanno inizialmente dimostrato che, in chi ha l’Alzheimer, le concentrazioni cerebrali di litio delle zone colpite dalla malattia sono inferiori a quelle delle aree non intaccate, e che il litio si lega alle placche di beta amiloide, le formazioni tipiche della demenza. Legandosi, però, il litio diventa meno disponibile per le funzioni fisiologiche, e questo spiega la degenerazione. Inoltre, il legame è tanto più evidente quanto più la malattia è avanzata. Come si è visto nei modelli animali, questo è un circolo vizioso: meno litio c’è, più placche si formano. Queste ultime, però, sottraggono sempre più litio. Oltretutto, il litio si lega anche alle altre proteine tipiche dell’Alzheimer, chiamate tau. A questo infine corrisponde anche un cambiamento nell’espressione di alcuni geni tipici dell’Alzheimer.

Dal punto di vista clinico, finora nei pazienti si è quasi sempre usato il carbonato di litio. Il quale, tuttavia, si lega alle placche di beta amiloide e quindi non serve per evitare il legame. Per questo gli autori hanno pensato di usare un altro sale, l’orotato, che non si lega e fa aumentare la concentrazione di litio disponibile, e hanno così ottenuto risultati molto più omogenei rispetto a certi studi degli anni passati, che davano esiti contrastanti, e in linea con l’idea del ruolo del litio. In sintesi, se si riesce ad aumentare la sua concentrazione con l’orotato, non solo la malattia non progredisce, ma mostra segni di regressione confermati dai test cognitivi, e il cervello vive una sorta di ringiovanimento fisiologico: un risultato mai ottenuto con nessuno dei farmaci approvati, neppure quelli più nuovi.

Il profilo della sicurezza per ora è positivo: gli animali trattati anche per tutta la vita non mostrano segni di tossicità, e questo è rassicurante anche in previsione di possibili studi clinici, anche se, come sempre, bisogna ricordare che non necessariamente quanto osservato sui modelli animali è trasferibile all’uomo.

C’è tuttavia un vero tallone d’Achille, anzi due: il costo e la brevettabilità. Il litio costa pochissimo, e i sali non sono coperti da brevetto. Ciò significa che sarà necessario che qualche azienda ci creda e investa comunque nello sviluppo successivo, negli studi clinici e così via, o che lo faccia qualche ente pubblico.

In compenso, la capacità di migliorare le performance cognitive e la concentrazione potrebbe portare a sviluppi terapeutici anche diversi.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 14 agosto 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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