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Respirazione e movimento
nuove regole anti-Long Covid

di Agnese Codignola*

Via via che passano i mesi, inizia a farsi più chiara la natura di quella che viene ormai ufficialmente chiamata sindrome del Long Covid o LCS, ossia quell’insieme di decine di sintomi diversi che compaiono ad almeno due settimane dall’infezione acuta da Sars-CoV 2, e permangono per almeno altre quattro, dando luogo a un peggioramento significativo della qualità della vita. E questo grazie allo sforzo di decine di centri clinici e laboratori di ricerca che, in molti Paesi, partecipano a network pubblici nazionali e internazionali e cercano di venire a capo dell’enigma, tentando anche di fornire risposte a quel 10-30% di persone che, dopo il Covid acuto, si ritrovano con la malattia. Secondo le stime più recenti, sarebbero non meno di 65 milioni, nel momndo.
Ne sono un esempio i due studi usciti negli stessi giorni, il primo dei quali illustra un programma di riabilitazione che sembra avere qualche successo soprattutto sull’affaticamento grave o fatigue, sintomo assolutamente tipico insieme al dolore al petto, all’annebbiamento mentale, alla depressione e al fiato corto, mentre il secondo mostra un possibile meccanismo alla base delle manifestazioni più tipiche della LCS.

Nel primo caso, i medici dell’Università di Leeds hanno messo a punto un protocollo di riabilitazione in cinque livelli, nell’ambito appunto di un grande programma nazionale lanciato dalla Gran Bretagna già nel 2021, che prevedeva l’istituzione di non meno di 80 centri specializzati in tutto il Paese, nei quali si applicassero terapie controllate (per evitare che le persone, spesso in condizioni difficili, si rivolgessero a terapie prive di fondamento e a terapisti truffaldini), anche se sperimentali e, al tempo stesso, si raccogliessero campioni, referti e testimonianze per continuare a studiare la LCS.
Va ricordato che non è stato – finora – affatto facile combattere l’affaticamento che colpisce i pazienti, perché spesso soffrono anche di una reazione negativa allo sforzo, o fatigue, post-esercizio, che rende assai complicati applicare loro i normali schemi riabilitativi. Per questo, come illustrato sul Journal of Medical Virology, il protocollo di Leeds prevede una significativa gradualità, da rispettare con rigore. Nella prima fase di preparazione, i pazienti devono effettuare esercizi di respirazione, brevi passeggiate ed esercizi di stretching dolce; nella seconda, definita di attività a bassa intensità, devono camminare un po’ di più, e dedicarsi ad attività quali il giardinaggio o le pulizie di casa, senza esagerare. Nella terza, chiamata di intensità moderata, devono iniziare con qualche esercizio più intenso, soprattutto di resistenza e con qualche flessione, e con brevi sessioni di jogging, mentre nella quarta, definita a intensità elevata, devono andare in bicicletta, oppure nuotare o ballare. L’ultima, poi, è caratterizzata dal ritorno alla piena attività, sia sportiva che quotidiana.
Questo protocollo è stato sperimentato per 6 settimane da 31 persone che soffrivano di LCS da almeno 17 mesi, e che avevano in media tre crisi settimanali talmente gravi da essere chiamate crash, scatenate da movimenti e attività normali prima del Covid, ma improvvise e tali da lasciare la persona colpita del tutto esausta e incapace di alzarsi anche per giorni.
Una volta istruiti a dovere, i partecipanti dovevano seguire lo schema a casa, dedicando a ogni livello almeno una settimana e non forzando mai rispetto a ciò che si sentivano in grado di fare. Una volta alla settimana, poi, un medico li chiamava per verificare le loro condizioni, che dovevano anche essere annotate nel dettaglio, giorno per giorno, in un apposito diario dagli stessi pazienti.
Alla fine del programma, i crash erano diminuiti, passando da tre a uno, in media, a settimana, e anche l’umore e la qualità di vita erano significativamente migliorati, come emerge dal racconto in prima persona di una delle partecipanti, Elisabeth Bycroft, che lavorava nel settore sanitario prima della pandemia e del suo Long Covid. Anche se per ora si tratta di piccoli numeri, che non esauriscono la discussione spesso accesa che esiste sul tipo di riabilitazione migliore per questi pazienti, lo studio suggerisce che programmi personalizzati e scrupolosi possano offrire una risposta soddisfacente, almeno fino a quando non saranno disponibili terapie più efficaci.

Per arrivare a queste ultime, potrebbe essere di aiuto lo studio pubblicato su iScience dai ricercatori dell’Università di Vienna, che offre una lettura innovativa di ciò che accade nella LCS.

Analizzando il plasma di 13 volontari sani, di 13 persone che avevano superato un Covid acuto e mostravano ancora qualche sequela (ma non la LCS), e 13 malati di LCS con un approccio multi-omico, cioè capace di analizzare contemporaneamente la presenza di decine di molecole (in questo caso del sistema che regola infiammazioni e immunità), gli autori hanno scoperto un quadro che, per certi versi, è l’opposto di quello ipotizzato finora. Nei malati di LCS non ci sono, infatti, le molecole pro-infiammazione acuta come le citochine, strettamente associate all’autoimmunità, tra le prime a essere sospettate di dare origine ai sintomi della LCS. Anzi, il quadro che le rappresenta è quello di un’inibizione dell’infiammazione, perché i valori delle singole molecole pro-infiammatorie sono spesso inferiori alla norma, segno di un’azione antinfiammatoria specifica. Al contrario, quelli di altre molecole, note per il loro ruolo anti-infiammatorio, come la taurina o l’ipaforina, sono straordinariamente alte.
Ciò si spiega con l’intervento di una classe di elementi del sistema immunitario chiamati macrofagi alternativamente polarizzati, che si formano in seguito a un’infezione e che devono coordinare i fenomeni di rigenerazione dopo il danno subito dall’attacco virale o batterico. Evidentemente – questa l’ipotesi – sono iperattivi, nei malati di LCS, o comunque non riescono a tornare silenti, alla normalità. Tutto ciò, secondo gli autori, tratteggia un quadro molto specifico, che potrebbe essere utilissimo per la diagnosi, e sul quale si può iniziare a pensare di intervenire anche con farmaci e modulatori specifici della risposta, anche se prima occorreranno conferme su campioni più ampi di pazienti con LCS.

 

*autrice di Il lungo Covid (Utet)

Data ultimo aggiornamento 11 febbraio 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: coronavirus, Covid-19



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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