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Il “male oscuro” dipende
anche dai batteri dell’intestino

di Agnese Codignola

Che rapporto c’è, se ne esiste uno, tra il sistema nervoso e il microbiota intestinale (cioè l’insieme dei microrganismi che vivono nel nostro intestino, senza danneggiarlo)? La domanda è al centro di numerosi studi (riassunti, tra gli altri, in un articolo uscito sulla rivista scientifica Nature nel 2021), che hanno via via reso sempre più evidente l’esistenza e, soprattutto, l’importanza di ciò che viene chiamato asse intestino-cervello (gut-brain). Si tratta di una via di comunicazione biologica diretta che trasporta alcuni metaboliti dell’intestino al sistema nervoso e, in senso inverso, i neurotrasmettitori cerebrali alla mucosa intestinale, in un continuo scambio di messaggi in forma di sostanze chimiche, che serve a mantenere gli equilibri metabolici, e che risente di innumerevoli fattori, perturbamenti e stimoli. Non stupisce quindi che fino dai primi studi si sia indagato anche sull’ipotesi di un rapporto tra microbiota (che, è bene ricordare, è un insieme di trilioni di virus, batteri, funghi e archei conosciuto solo in parte) e tono dell’umore, rapporto suggerito da molte indagini sui modelli animali.

Quella possibile relazione sembra confermata da due studi, usciti come unico articolo  su Nature Communications, che si confermano a vicenda, coordinati da psichiatri, internisti, gastroenterologi, genetisti, microbiologi e altri specialisti e ricercatori delle Università di Amsterdam e Rotterdam, in Olanda, che potrebbero rappresentare un punto fermo, perché svolti, per la prima volta, su un numero consistente di esseri umani.

Il primo illustra i risultati dell’ERGO Rotterdam Study, nell’ambito del quale è stata analizzata in dettaglio la composizione del microbiota di mille persone, e verificata l’eventuale presenza di sintomi depressivi. Nel secondo studio vi sono quelli dell’Amsterdam HELIUS Study, che di persone ne ha valutate oltre 1.500, anche in quel caso per studiare il microbiota e la depressione.

L’elaborazione dei dati delle due ricerche ha permesso di dimostrare che il microbiota dei depressi presenta aspetti specifici, quali un minore assortimento di specie e, soprattutto, un’elevata presenza di alcune, e carenza di altre, fino a comporre un quadro caratteristico e molto diverso da quello di chi non soffre di depressione. In particolare, ha consentito di identificare ben 13 taxa, cioè famiglie di microrganismi, che potrebbero essere considerate veri e propri marcatori della depressione (Eggerthella, Subdoligranulum, Coprococcus, Sellimonas, Lachnoclostridium, Hungatella, Ruminococcaceae, Lachnospiraceae, Eubacterium ventriosum, il gruppo Ruminococcus gauvreauii, e l’intera famiglia delle Ruminococcaceae).

Ciò che emerge con forza, da questo panorama, è la constatazione che la maggior parte delle famiglie e specie coinvolte comprende microrganismi che producono neurotrasmettitori come la serotonina e il GABA o loro precursori, tutti fondamentali nella regolazione del tono dell’umore. È pertanto perfettamente razionale che chi ha un minore apporto di queste sostanze (dovuto alla scarsa presenza dei batteri e degli altri microrganismi che le producono a livello intestinale) abbia sintomi depressivi.

Oltre a ciò, sono state evidenziate anche differenze nel microbiota e nell’incidenza della depressione in base al gruppo etnico di appartenenza, il cui motivo non è chiaro. Per alcuni esperti la differente composizione del microbiota potrebbe derivare da abitudini alimentari diverse, ma per lo più si pensa anche a cause genetiche, perché la sola spiegazione associata alla dieta non sembra essere sufficiente.

Infine, l’identificazione delle specie associate alla depressione ha una conseguenza relativamente ovvia: può essere che, intervenendo sulla composizione del microbiota, si riesca ad agire sulla depressione. E questo è ciò che stanno già cercando di verificare diversi studi nei quali si chiede ai partecipanti di assumere certe miscele di probiotici per vedere se ciò possa contrastare la disbiosi (cioè lo squilibrio delle specie) e, con essa, i sintomi depressivi.

Data ultimo aggiornamento 16 dicembre 2022
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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