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I pazienti bravi e buoni
sono davvero i migliori?

di Giovanna Gatti

Post antipatico, credo, ma necessario. Nell’interazione mente-corpo una delle domande più importanti nell’ottica della guarigione da una malattia è: quali sono i pazienti migliori, cioè i pazienti che a parità di malattia e cure mediche hanno una maggiore probabilità di guarire? A una prima occhiata potremmo pensare che siano i pazienti buoni e bravi, quelli che aderiscono subito e senza discutere alle cure proposte dai medici, i pazienti che si lamentano meno degli effetti collaterali e pongono pochissime domande alle visite preliminari e ai successivi controlli. Se osserviamo la pratica quotidiana e leggiamo i libri di Bernie Siegel, però, ci accorgiamo che forse non è vero: certo, i pazienti bravi e buoni sono ideali per i medici (faccio notare che Siegel è un medico, anzi un chirurgo: quindi fa parte di una categoria molto particolare tra i medici) perché non mettono in crisi e non prolungano le visite con miliardi di questioni, ma non sono ideali per se stessi.

Perché sembra proprio che i pazienti più propensi a guarire o comunque a vivere a lungo e in uno stato di benessere se la malattia è molto grave siano i più attivamente partecipi a ogni dettaglio della diagnosi e delle cure. Essere attivamente partecipi significa riflettere, domandare, informarsi, accettare o meno, discutere con i curanti. Stiamo parlando dei pazienti che chiedono, chiedono, chiedono: leggono molto, si fanno aiutare dai medici nel giudicare le informazioni che ottengono (non credono a tutto soprattutto su Internet dove si trova qualsiasi sciocchezza), sono critici nei confronti delle proposte che non li convincono ma anche aperti ad accettare le spiegazioni basate sui dati scientifici e sull’istintiva fiducia nei confronti di chi li cura. Sono pazienti attivi, cioè hanno capito una verità fondamentale: in un processo di cura si lavora almeno in tre, cioè paziente, medico e infermiere. E sto riducendo al minimo perché dovrei includere altre figure professionali importantissime e i familiari, ma in questo momento non è particolarmente utile stilare un elenco di persone coinvolte nella cura: conta ribadire che il paziente non è e non deve essere un ricevitore passivo, pena la riduzione della probabilità di guarire.

Chi di voi riesce a recuperare “Amore, medicina e miracoli” di Siegel è molto fortunato: con mia sorpresa è un libro non più pubblicato in Italia, anche se si trovano gli altri libri di questo straordinario chirurgo che ha dedicato la vita a studiare i pazienti straordinari che guariscono da malattie giudicate incurabili. Siegel è molto curioso e studia (come me) i “miracoli”, cioè le guarigioni incredibili che devono avere qualche regola finora sfuggita alla scienza: deve esistere una riproducibilità nella guarigione miracolosa, almeno in parte, ma il fatto è che la medicina ha sempre studiato i casi di recidiva e mancata guarigione non concentrandosi sulle caratteristiche di chi invece è guarito.

Come ripeto ogni giorno alle persone che vengono da me in ambulatorio, partecipare alla propria cura significa sentirsi responsabili almeno parzialmente di quanto accadrà. Le cure chirurgiche e farmacologiche dipendono dalle prescrizioni dei medici, certo, e così gli esami di diagnosi, però queste sono solo alcune parti della terapia: lo stile di vita, lo stato mentale, l’analisi introspettiva per scoprire quali fattori psicologici ed energetici abbiano portato alla malattia hanno la medesima importanza rispetto alla medicina tradizionale. 

Usare la mente per curare il corpo significa adottare stili di vita adatti alla singola persona (senza aderire a credenza da fattucchiera o rimedi della nonna scovati qua e là. Con tutto il rispetto per le nonne, non sempre questi rimedi funzionano) ma anche scendere nel silenzio all’interno di sé per comprendere due fattori fondamentali:

- a cosa sia servita o serva la malattia che si è presentata
- come risolvere questioni del tutto personali in modo da riconvertire il processo e ottenere la guarigione

Personalmente ritengo che ogni paziente che incontro abbia tutte le possibilità di guarire, qualunque sia la malattia a qualsiasi stadio: ho visto abbastanza della medicina da sapere che i miracoli esistono e sono più frequenti di quanto crediamo. Si verificano guarigioni e sparizioni di malattie che oggi non trovano spiegazione razionale, ma solo perché non siamo ancora arrivati a conoscere abbastanza. 

Sono convinta che andare avanti nello studio dell’interazione mente corpo in una relazione medico-paziente empatica, aperta a ipotesi non ancora codificate dalla scienza e comunque rigorosa nel mantenere saldi principi scientifici rivelatisi utili significhi anche insegnare ai pazienti a diventare tutti straordinari, cioè a partecipare in modo attivo e continuativo alla cura del loro corpo (grazie alla potenza incredibile della mente). 

Data ultimo aggiornamento 16 marzo 2016
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: cancro, mente e corpo, tumori



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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