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“Long Covid”: origine forse
autoimmune, attivata dal virus

Fin dai primi mesi della pandemia, in tutto il mondo sono state segnalate (rare) reazioni di tipo autoimmune associate o conseguenti al Covid 19. Pazienti con forme cliniche più o meno gravi di infezione hanno sviluppato malattie quali il lupus o la mielite trasversa, e l’ipotesi autoimmune è stata avanzata da più parti per spiegare alcune delle reazioni più misteriose e gravi tipiche della nuova patologia. Non solo. Via via che si è andato delineando il quadro del cosiddetto Long Covid, cioè della sindrome post virale che colpirebbe non meno di un malato su dieci, in molti hanno ipotizzato che si tratti di una reazione autoimmune, indotta dallo sconvolgimento che il virus SARS-CoV-2 (responsabile del Covid, appunto) porta nell’organismo e, in particolare, nel sistema immunitario. Il Long Covid, lo ricordiamo, può manifestarsi con più di 200 sintomi differenti, e  probabilmente costituirà una grande questione di sanità pubblica nei prossimi mesi. 

Parallelamente, studi di diverso tipo (di laboratorio e su pazienti) hanno rafforzato questa idea, per la quale manca però ancora la prova definitiva. In questa stessa direzione va ora una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Clinical & Experimental Immunology dagli immunologi dell’Università di Birmingham, in Gran Bretagna, che hanno messo a confronto la presenza di autoanticorpi (cioè anticorpi sviluppati per errore dall’organismo contro se stesso) in 84 persone ricoverate in terapia intensiva per Covid 19, oppure dimesse da qualche settimana o, ancora, vittime di una forma lieve della malattia, con quelli presenti in 32 persone ricoverate per altre patologie.
In generale, il risultato è stato che le persone infettate dal virus SARS-CoV-2 presentavano più spesso autoanticorpi rispetto a chi aveva avuto altre patologie, e la differenza era ancora visibile sei mesi dopo la fase acuta. Andando poi a vedere i sottogruppi di pazienti, si è visto che:

- Dei 32 individui analizzati durante il ricovero per altri motivi (circa uno su due per polmonite), il 41% aveva autoanticorpi. La tipologia degli autoanticorpi, così come quella delle malattie, era estremamente varia, e questo dimostrerebbe la casualità dei primi, non necessariamente legati alla patologia causa del ricovero.

- Dei 25 pazienti ricoverati in terapia intensiva per Covid, il 60% aveva autoanticorpi. Tra i positivi, il 41% aveva autoanticorpi contro le cellule della cute, il 17% contro antigeni delle ossa.

- Dei 35 pazienti che avevano superato la terapia intensiva, erano tornati a casa ed erano stati analizzati sei mesi dopo, il 77% aveva autoanticorpi, che nel 19% dei casi erano contro la cute, nel 19% contro le ossa, nel 28% dei casi contro cellule del cuore e nel 31% contro la muscolatura liscia.

- Infine, dei 24 lavoratori del settore sanitario che avevano avuto una malattia lieve ed erano stati controllati da uno a tre mesi dopo la guarigione, il 54% aveva autoanticorpi. In questo caso si trattava, in un quarto di pazienti, di autoanticorpi contro la cute, nel 17% contro i muscoli lisci, nell’8% contro i neutrofili citoplasmatici (ANCA) (cioè contro una delle popolazioni di cellule del sangue della serie bianca), mentre il 4% aveva autoanticorpi contro le cellule della parete gastrica, di solito associati ad anemia e gastrite.

I ricercatori sottolineano che non è noto se la stessa presenza di autoanticorpi possa essere evidenziata dopo altre infezioni virali, né se questi autoanticorpi siano o meno responsabili dell’incredibile varietà di sintomi finora registrati sia nelle fasi acute che nel Long Covid. Ma fanno anche notare come questo studio, per la prima volta, dimostri un significativo aumento di autoanticorpi nei malati, e metta in evidenza come l’infezione inneschi la formazione di alcuni tipi di autoanticorpi e non di altri (ne esistono di molti tipi diversi): questo indizio potrebbe guidare i necessari studi successivi.

Data ultimo aggiornamento 8 giugno 2021
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Vedi anche: • La depressione è lo “strascico” più frequente nei malati Covid


Tags: autoimmunità, coronavirus, Covid-19



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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