AUTOIMMUNITà
Sindrome da affaticamento cronico:
una malattia "vera". E ora c’è un test

La sindrome da affaticamento cronico o encefalomielite mialgica (CFS/ME), meglio nota come sindrome da fatigue cronica, riconosciuta come malattia solo nel 1986, è stata considerata a lungo una manifestazione psicosomatica, anche se chi ne soffre a volte è in una condizione di disabilità grave. Nel tempo, però, è diventato sempre meno plausibile che si trattasse solo di un disagio mentale, anche perché i casi continuavano ad aumentare, e la malattia, studiata meglio, iniziava ad assumere caratteristiche sempre più chiare. Oggi l’incidenza è ancora poco definita, a causa della difficoltà di ottenere una diagnosi, ma è compresa tra lo 0,4 e il 2,5% della popolazione: solo negli Stati Uniti, ciò significa che colpisce circa 2,5 milioni di persone, con un costo per la sanità e per le giornate di lavoro perse che si aggira attorno ai 51 miliardi di dollari all’anno.
Inoltre, ormai è dimostrato che la stanchezza che impedisce di svolgere anche i più semplici compiti quotidiani (la fatigue), l’annebbiamento mentale (brain fog) e il malessere in seguito all’attività fisica (post-exertional malaise), sono i tre sintomi più comuni, ma che accanto a essi ve ne possono essere decine di altri, che possono colpire quasi ogni organo o tessuto.
La natura e le sue caratteristiche di questa strana malattia, non di rado scambiata per depressione, sono diventate più evidenti quando si è iniziato a manifestare il Long Covid, cioè la sindrome post-virale comparsa già pochi mesi dopo le prime ondate pandemiche di Covid 19, che presentava numerosi aspetti comuni con la CFS/ME, sia dal punto di vista dei sintomi che da quelli immunologici.
Quest’ultima, quindi, è stata messa in relazione con quella e con altre condizioni post infettive analoghe, come quella che viene dopo la malattia di Lyme (borreliosi) veicolata dalle zecche, anche perché quasi sempre, la storia clinica di chi era colpito da CFS/ME presentava, settimane o mesi prima, un’infezione con sintomi simili a quelli influenzali.
C’era dunque il sospetto, sempre più fondato, che si trattasse proprio di questo: una risposta sbagliata e cronica a un’infezione.
Negli ultimi anni diversi studi hanno corroborato questa ipotesi (alcuni sono stati illustrati nella sezione delle notizie brevi di Assedio Bianco, e si trovano interrogando il motore di ricerca per esempio con la parola affaticamento), e ora finalmente un grande studio sistemico pubblicato sulla rivista del gruppo Nature npj Metabolic Health and Diseases da esperti di alcune università statunitensi, coordinati dagli immunologi della Columbia University di New York, non solo fornisce la conferma probabilmente definitiva, ma individua anche diversi sottotipi di malattia, arrivandosi a indicare possibili terapie personalizzate in base, appunto, al sottotipo.
LO STUDIO SUI PAZIENTI - Per esaminare in modo organico e da più punti di vista che cosa succede in una persona che sviluppa una CFS/ME, i ricercatori hanno controllato a fondo 57 pazienti e 52 soggetti simili per età, genere e altre caratteristiche, ma senza sindrome, prima e dopo uno sforzo fisico. E lo hanno fatto ricorrendo a tre approcci diversi: quello metabolomico, con il quale si indagano, a livello molecolare, i circuiti dei diversi metabolismi del corpo umano; quello – simile – proteomico, grazie al quale si definiscono decine se non centinaia di proteine, patologiche e no; infine quello della risposta agli agenti infettivi, sia batterici che virali, che misura la reattività del sistema immunitario.
Il quadro che ne è emerso è al tempo stesso coerente ed eterogeneo. In altre parole, emergono i tratti comuni alle diverse forme e, quindi, si conferma che la malattia è un’entità a sé stante, ma anche le particolarità, che aiutano a individuare i sottotipi.
Senza entrare troppo nei dettagli, ecco quali sono state le scoperte più importanti dei due set di esperimenti di -omica (metabolomica e proteomica), ovvero ciò che si è visto nei pazienti, ma non nelle persone di controllo:
· alterazioni nel metabolismo energetico generale e difetti nella produzione di energia, fatto che spiega la stanchezza fisica e mentale, e l’accumulo di sostanze tossiche che peggiorano la situazione;
· anomalie nei grassi (lipidi), che spiega i danni ai tessuti e il persistere di uno stato infiammatorio cronico;
· distruzione della matrice extracellulare, cioè di quei tessuti che tengono insieme le cellule e che consentono a esse di comportarsi normalmente. Ciò implica mancate regolazioni del rilascio di sostanze (soprattutto pro-infiammatorie) e, di conseguenza, infiammazioni;
· distruzione delle barriere epiteliali soprattutto dell’intestino. Evento che, a sua volta, provoca alterazioni nel microbiota intestinale (disbiosi) con rilascio di metaboliti batterici nel sangue e, di nuovo, conseguente infiammazione;
· attivazione del sistema del complemento, ovvero di quella parte di sistema immunitario innato composto da almeno una trentina di proteine che interviene contro i patogeni e che, quando tutto funziona a dovere, si disattiva assai velocemente. In questo caso no, resta in funzione, e la sua attivazione cronica provoca ancora infiammazioni, stanchezza grave e danni ai tessuti;
· alterazioni del sistema di contrasto all’ossidazione che chiama in causa il rame, fatto che causa infiammazioni, danni ai tessuti e stress ossidativo;
· dis-regolazione di un sistema che coinvolge il triptofano (un aminoacido chiave per la serotonina), la serotonina e la kinureina a livello centrale, che può spiegare il brain fog.
Anche dal punto di vista della reazione alle infezioni gli esperimenti hanno portato a risultati chiari. In questo caso i ricercatori hanno utilizzato le cellule di sangue periferico chiamate Peripheral Blood Mononuclear Cells (PBMCs), molto utili per studiare le risposte immediate a un patogeno.
Per le infezioni batteriche hanno esposto le PBMCs a una sostanza chiamata LPS, mentre per quelle virali alla poly I:C, due composti che stimolano la risposta specifica. Hanno così visto che, in entrambi i casi, si ha un’elevata produzione di interleuchina 6 o IL6, tipica delle infiammazioni, superiore a quella delle persone di controllo. Inoltre, hanno messo in coltura le cellule, con un sistema chiamato TrueCulture, con una sostanza prodotta da batteri (Staphylococcus enterotoxin B) e con miceti (HKCA o heat-killed Candida albicans), e hanno visto che la risposta infiammatoria è molto più elevata rispetto a ciò che si vede nei controlli. Ci sono quindi pazienti che mostrano reazioni esagerate ai patogeni.
Tutto concorre quindi a definire un quadro di dis-regolazione delle risposte immunitarie anche acute, che persiste nel tempo, e una conseguente infiammazione cronica che spiega i sintomi.
In più, come i dati clinici mostrano da anni, le reazioni sono più forti nelle donne, soprattutto dopo i 45 anni, quando la protezione degli estrogeni inizia a venir meno.
LE SOLUZIONI TERAPEUTICHE - Questa descrizione sarebbe già molto importante, visto che negli anni le informazioni sono state spesso frammentarie, e hanno riguardato singoli aspetti, senza quasi mai proporre una visione di insieme. Ma gli autori hanno fatto un passo successivo, individuando possibili terapie, in molti casi già presenti sul mercato, che potrebbero essere efficaci nelle diverse forme, e che andrebbero quindi quantomeno sperimentate.
Il primo farmaco citato, che potrebbe andare bene per chi ha una iper-reattività alle infezioni, è una delle molecole più vecchie e più sorprendenti dell’intero armamentario farmaceutico: l’antidiabetico metformina, che continua a svelare nuove potenzialità (e costa pochissimo, oltre a essere sicuro). Poi potrebbero essere utili, sempre in questo tipo di malati, l’immunosoppressore inibitore di mTOR rapamicina, anch’esso già in uso, così come l’interleuchina 37, una citochina che riesce a tenere sotto controllo le infiammazioni.
Coloro che invece hanno un’evidente disbiosi potrebbero avvantaggiarsi di prebiotici come l’inulina, un’alga che aiuta a ripristinare la barriera delle mucose intestinali favorendo alcune specie batteriche positive, e che è a sua volta in vendita come integratore, oppure di alcuni probiotici come i batteri F. prausnitzii, che favoriscono il ristabilimento del giusto equilibrio tra le specie.
Alcuni malati, poi, hanno soprattutto squilibri energetici, e si possono individuare da ciò che accade quando si manifesta il malessere post attività fisica. Al disturbo (molto tipico, perché in altre condizioni di indebolimento l’attività fisica, praticata nei giusti modo e tempi, favorisce il recupero) corrispondono alterazioni di un metabolita dei grassi chiamato 12,13-diHOME, insolitamente basso, e quelle di un altro metabolita, questa volta dei mitocondri (le centrali energetiche delle cellule) chiamato GDF15 (da Growth Differentiation Factor 15). Per costoro la cura giusta, in futuro, potrebbe essere l’assunzione di 12,13-diHOME o la somministrazione di anticorpi contro GDF15, già in studio. Anche la carnitina interviene sul metabolismo energetico, e potrebbe quindi avere un ruolo positivo per questi pazienti.
Inoltre, chi mostra anomalie del circuito della serotonina, potrebbe avere benefici, probabilmente, dagli antidepressivi inibitori della ricaptazione (SSRI, della stessa classe del prozac) o dalla somministrazione del 5-idrossitriptofano.
Infine, le donne in menopausa o comunque con bassi livelli di estrogeni potrebbero essere curate con ormoni attentamente dosati.
In definitiva, anche se in futuro potrebbero esserci terapie progettate espressamente per la CFS/ME, non si tratterà, con ogni probabilità, di una sola cura, ma di diverse opzioni, cui ricorrere di volta in volta in base al tipo di malattia e ad altre caratteristiche come, per esempio, il genere o l’età. Inoltre, quanto scoperto sarà molto utile per approfondire le altre sindromi post infettive, a cominciare dal Long Covid, che ha dato un grande impulso agli studi su queste forme di diregolazione immunitaria.
LA DIAGNOSI - Altri passi significativi in avanti potrebbero poi arrivare con un nuovo test che, in un primo studio, è stato in grado di identificare i malati con un’accuratezza del 96%. Come riportato sul Journal of Translational Medicine, infatti, un esame del sangue che si basa su una tecnolgia già in uso per la diagnosi del tumore alla prostata, chiamata EpiSwitch® e incentrata su parametri epigenetici (che misurano i cambiamenti nell’espressione dei geni, in questo caso di quelli che codificano per proteine tipiche della risposta immunitaria e dell’infiammazione), sperimentato di 47 pazienti e 61 controlli sani ha mostrato un’accuratezza del 92% (cioè ha correttamente indivisuato il 92% dei casi) e una specificità (cioè una capacità di distinguere tra malati e non) del 98%. Si attendono verifiche su casistiche più ampie, ma qualora dovessero arrivare la gestione della CFS/ME potrebbe cambiare radicalmente.
Dopo anni di sottovalutazione, la sindrome da fatigue cronica è meno oscura, e viene presa molto sul serio. A tutto beneficio dei pazienti.
A.B.
Data ultimo aggiornamento 23 novembre 2025
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