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Nel corso dell’Evoluzione non sempre
hanno vinto i meccanismi più "perfetti"

Il biologo, etologo e scrittore Richard Dawkins (foto di Andy Hall/Getty)

di Valeria Camia

Vincitore di numerosi riconoscimenti (fra i quali “The Times best science book of 2024”), l’ultimo libro di Richard Dawkins - The genetic book of the dead - non è stato ancora pubblicata in italiano e, se lo sarà, dubitiamo che utilizzerà la traduzione letterale del titolo, “il libro genetico dei morti”. Sarebbe molto fuorviante e anche un po’ angosciante. Non è un saggio che parla di morte e non è nemmeno un trattato di genetica, la cui lettura richiede conoscenze specialistiche. 

Richard Dawkins, 84 anni, professore (ora in pensione) alla Oxford University, è un etologo, biologo, divulgatore scientifico britannico di fama internazionale. Il suo libro più famoso, Il gene egoista (pubblicato nel 1976), aveva suscitato un grandissimo interesse, e un ampio dibattito, perché sosteneva, fra le altre cose, che gli organismi viventi - compresi gli esseri umani - sono soltanto “macchine da sopravvivenza” costruite dai geni per garantirsi la propria replicazione e trasmissione.

Dopo anni di studio e di attività didattica, Dawkins ha deciso di creare anche una “sua” fondazione, la Richard Dawkins Foundation for Reason and Science, che si propone - come riferisce il sito della fondazione stessa - “di promuovere l’alfabetizzazione scientifica e una visione laica del mondo". È in questo ambito di insegnamento che si colloca The genetic book of the dead, dove dead, i morti, di cui parla non sono i nostri antenati lontani, non gli individui né le popolazioni, neppure le specie. Sono i geni “ancestrali” presenti nel DNA (le tracce del nostro cammino evolutivo, che ancora ci condizionano molto).

Il libro di Dawkins contiene una serie di illustrazioni bellissime, realizzate da Jana Lenzová: una serie di pesci, il cranio di mammiferi estinti così simili alle ossa della testa di animali che ci circondano, uova di cuculo mimetizzate in un nido che non è di quella specie, un diagramma che mostra come le tartarughe siano diventate terrestri o d’acqua, un altro dove si vede che i parenti viventi più stretti degli ippopotami non sono i maiali ma le balene; poi c’è una sorta di albero a grappoli sui cui rami sono rappresentati l’Homo Sapiens, gli scimpanzé, i gorilla e i bonobo. 

"Ognuno di noi è un libro - esordisce Dawkins, - un’opera letteraria incompiuta, un archivio di storia descrittiva. Il nostro corpo e il nostro  genoma possono essere letti come un dossier completo su una successione di mondi colorati da tempo scomparsi, mondi che circondavano i nostri antenati da tempo perduti: un libro genetico dei morti”. E più avanti: "I morti rappresentano una descrizione degli ambienti che hanno modellato l’intero patrimonio genetico" (NB: la traduzione dal testo originale inglese è nostra). Ma The genetic book of the dead può essere visto anche come una previsione del futuro, "basata sull’assunzione - spiega Dawkins - che il futuro non sarà troppo diverso dal presente".

A questo punto Dawkins riprende Darwin e la teoria della selezione della specie, argomentando che il genoma (DNA) di ogni individuo è un campione (un modello, un esempio) del patrimonio genetico della sua specie sviluppato nel corso di molte generazioni principalmente attraverso una "scultura non casuale" (non-random sculpture), intendendo per “scultura” la selezione naturale.
Ma mentre il genoma di un singolo individuo non cambia (o, meglio, subisce tanti piccoli cambiamenti nel corso della vita che non alterano, però, la sua "impalcatura" fondamentale, a meno che non intervengano gravi tipi di patologie), il patrimonio genetico collettivo della specie si modifica nel corso di migliaia o milioni di anni, e ciò per migliorare la capacità di sopravvivere e riprodursi. Il libro contiene una bella immagine del geco dalla coda a foglia, che - scrive Dawkins - incarna la "memoria" darwiniana di generazioni di foglie cadute molto prima che l’Uomo arrivasse in Madagascar (probabilmente molto prima che l’uomo esistesse ovunque). Similmente, le squame delle lucertole mimetizzate richiamano immagini dei deserti del Permiano (250 milioni di anni fa); e le piccole talpe ci ricordano il mondo sotterraneo muschioso abitato dai loro antenati dell’Eocene (40 milioni di anni fa).

La scultura precisa e dettagliata della selezione naturale - sottolinea Dawkins - agisce non solo sull’aspetto esteriore, ma anche a livello sub-microscopico, all’interno delle cellule. Questa prospettiva solleva una domanda importante: in che misura l’adattamento spiega la “perfezione” (o comunque la funzionalità esterna e interna migliore possibile) che osserviamo negli animali? Dawkins affronta questo tema evidenziando il bilanciamento tra i vantaggi dell’adattamento e i costi delle modifiche biologiche. Ad esempio, ogni nervo, vaso sanguigno, legamento oppure osso, ha la sua determinata forma e posizione non per una ricerca di perfezione, ma a causa dei vincoli dello sviluppo e dei processi implicati nell’embriologia.
Un’alterazione significativa nella sequenza embriologica, cioè - come il reindirizzamento di un vaso sanguigno - potrebbe avere conseguenze catastrofiche “a valle”, rendendo tali cambiamenti proibitivamente costosi in termini evolutivi. Scrive Dawkins: "Ogni vaso sanguigno segue la sua strada grazie a un processo embriologico ben definito, durante lo sviluppo degli individui. […] Uno sconvolgimento della sequenza genetica che regola lo sviluppo dell’embrione (uno sconvolgimento necessario per attuare un cambiamento) solleverebbe necessariamente problemi di "costi biologici" tali da superare ogni altra considerazione. Insomma, chi può dire quali conseguenze catastrofiche a valle potrebbero derivare da un cambiamento nella sequenza genetica necessaria per deviare quel vaso sanguigno?»
Questo equilibrio tra costi e benefici sottolinea anche come l’adattamento non miri a un design perfetto di per sé; piuttosto, crea organismi che possono sopravvivere e riprodursi nei loro specifici ambienti, evitando rischi inutili che potrebbero derivare da cambiamenti eccessivamente complessi o radicali. 

Dawkins ha detto che quello appena pubblicato sarà il suo ultimo libro, quindi è improbabile che ritorni su alcuni grandi temi lasciati aperti (non solo da lui): in particolare, sappiamo davvero cosa facciano i nostri geni? E se la maggior parte del DNA ancestrale che possediamo è stata modificata dal continuo processo della selezione naturale, come è possibile scoprire quali sono i nostri geni più "antichi" e più profondi? Qual è l’interazione tra selezione naturale e contingenze storiche, tra cambiamento culturale e conseguenze evolutive? (Dawkins ne fa un accenno nel libro, ma la questione non viene approfondita). Dawkins non racconta neppure (non l’ha mai raccontato)  come riesca a muoversi (emotivamente o “poeticamente”) ogni giorno in un mondo in cui - secondo la sua idea della vita - ogni passo in avanti, ogni miglioramento e dispiegamento di risorse è pesato in termini di “costi economici” (costi biologici) che le modifiche implicherebbero, lasciando nulla alle emozioni; dove tutto è spiegato sulla base della selezione naturale e dell’"egoismo" dei geni, e l’immaginazione è un prodotto dell’evoluzione stessa.

Data ultimo aggiornamento 17 maggio 2025
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: recensioni



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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