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I traumi da hockey su ghiaccio aumentano
la probabilità di depressioni e dipendenze

Il gioco dell’hockey su ghiaccio, soprattutto se a livello agonistico, dovrebbe essere regolamentato meglio, perché i traumi che riportano i giocatori professionisti, oltre a essere associati a un aumento del rischio di sviluppare una demenza, lo sono anche a quello di andare incontro a esaurimenti nervosi, dipendenze soprattutto da alcol, rapporti patologici con i social media, ansia e depressione. Lo dimostra uno studio pubblicato su BMC Sports Science, Medicine and Rehabilitation dai ricercatori del dipartimento di psichiatria dell’Università di Lund, in Svezia, nel quale è stata esaminata la storia di circa 650 giocatori svedesi professionisti in attività, sia maschi che femmine. Il risultato è stato preoccupante: gli atleti hanno un rischio aumentato di circa il 30% rispetto alla popolazione generale e rispetto ad altre categorie di sportivi di cadere nell’alcolismo (tasso che tra le donne sale addirittura al 36%), e del 20% di avere un esaurimento (burnout). Chi ha subito tre o più concussioni alla testa, poi, ha un raddoppio di incidenza di depressione (2,1 volte) e un aumento di 3,5 volte di burnout rispetto a chi non ha mai avuto colpi al cranio. Lo studio conferma altri dati usciti negli anni scorsi nei quali è stato dimostrato che, tra gli atleti più giovani che oraticano sport di contatto, i traumi cranici ripetuti sono associati a un deciso aumento del rischio di dipendenze, depressione e suicidio.

I dati sulle conseguenze dei traumi ripetuti alla testa hanno ormai raggiunto una consistenza tale che è ormai impossibile ignorarli. Anche le associazioni sportive dovrebbero tenerne conto. 

A.B.
Data ultimo aggiornamento 18 novembre 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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