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Diabete 1, trapianti sempre più efficaci

Buoni risultati di una sperimentazione condotta in dieci ospedali americani ed europei, con le cellule beta pancreatiche inserite nel fegato. Ma la nuova frontiera è ancora più avanzata: un mini-pancreas "applicato" al peritoneo. Eseguito con successo un intervento a Miami e uno al Niguarda di Milano

di Agnese Codignola
Costanza Naguib

Buone notizie per i malati di diabete di tipo 1 (quello di origine autoimmune, che porta alla distruzione di una parte del pancreas): il trapianto di gruppi di cellule beta pancreatiche (che si trovano all’interno delle cosiddette isole di Langerhans, nel pancreas, e sono in grado di secernere insulina) funziona, e sembra in grado di assicurare ai malati un netto miglioramento del controllo della glicemia, cioè dei livelli di glucosio (zucchero) nel sangue e, in generale, delle condizioni di salute. Questo, almeno, è quanto riferisce un articolo pubblicato sulla rivista Diabetes Care dagli specialisti di una decina di ospedali statunitensi ed europei, che hanno riferito quanto osservato in 48 diabetici sottoposti a trapianto di cellule da donatore, purificate in laboratorio.

LA TECNICA - La procedura è relativamente semplice e prevede l’inserimento delle cellule beta pancreatiche all’interno del fegato della persona malata, con apposite sonde, sotto controllo radiografico. Come riferisce Diabetes Care (che è la rivista dell’American Diabetes Association), le persone che hanno ricevuto il trapianto non sono incorse in casi gravi di ipoglicemia, nell’88% dei casi, e hanno mostrato, in generale, un controllo glicemico definito eccellente, nei primi 12 mesi. Dopo un anno, solo un diabetico su due era ancora dipendente dall’insulina, e dopo due anni la percentuale di persone che non avevano avuto ipoglicemie gravi era ancora del 71%. Non si sono verificati decessi né disabilità, e solo cinque malati hanno avuto effetti collaterali associati alla reazione immunitaria al trapianto, o a infezioni dovute all’immunosoppressione necessaria. Questa tecnica è stata certificata dalle autorità sanitarie statunitensi e rappresenta un passo avanti rispetto ad altre sperimentazioni precedenti, che hanno offerto risultati positivi, ma una "durata" più breve degli effetti positivi del trapianto.

I "DESTINATARI" - Abbiamo parlato di questo tema con Camillo Ricordi, direttore del Diabetes Research Institute and Cell Transplant Center dell’Università di Miami (Stati Uniti) e scienziato di punta in questo settore (anche la sua équipe ha partecipato alla sperimentazione descritta da Diabetes Care). Attualmente, spiega il professor Ricordi, il trapianto di cellule pancreatiche è utilizzato come cura solo nei casi più gravi di diabete di tipo 1. Questo perché, analogamente a quanto avviene per altre tipologie di trapianto, dopo l’intervento il paziente deve assumere costantemente una serie di farmaci immunosoppressori (anti-rigetto,  che possono creare problemi collaterali e indeboliscono le difese immunitarie, ndr). «Questa opzione terapeutica - continua Ricordi - è dunque indirizzata soprattutto a quei pazienti che soffrono di crisi di ipoglicemia improvvise, delle quali non è possibile cogliere i segnali anticipatori (ipoglicemie che vengono gestite con difficoltà tramite le terapie tradizionali). Queste sono le persone soggette ai rischi maggiori, in quanto potrebbero inaspettatamente trovarsi in una fase di ipoglicemia acuta mentre, ad esempio, sono al volante di un’autovettura».

PANCREAS IN MINIATURA - Oggi, dopo questa sperimentazione multicentrica sponsorizzata negli Stati Uniti dai National Institutes of Health (NIH) e dopo sperimentazioni con buoni risultati da parte di diversi altri centri di ricerca, la nuova frontiera consiste nel trovare un modo per eliminare la necessità di somministrare farmaci immunosoppressori dopo il trapianto delle isole pancreatiche. In questo ambito, è stato presentato al congresso dell’American Diabetes Association - che si è svolto a New Orleans dal 10 al 14 giugno - il primo caso di trapianto di un pancreas in miniatura (se vogliamo dire così), composto da cellule beta avvolte in un’impalcatura biologica riassorbibile (tecnica BioHUB). L’intervento è stato eseguito l’anno scorso a Miami, e la paziente ha registrato livelli di glicemia perfettamente fisiologici, senza bisogno di assumere insulina. Un altro trapianto con questo sistema è stato eseguito poche settimane fa anche all’ospedale Niguarda di Milano, dall’équipe del diabetologo Federico Bertuzzi. 
La tecnica BioHUB, messa a punto dal team di Ricordi, prevede che le cellule pancreatiche avvolte dall’impalcatura biologica non vengano inserite nel fegato, ma nell’omento, cioè in una delle membrane che costituiscono il peritoneo e avvolgono gli organi addominali. In questo modo si evitano le reazioni infiammatorie che spesso il fegato sviluppa contro le cellule trapiantate. Come spiega il sito Portale Diabete, l’impalcatura biologica è costituita da plasma (la parte liquida del sangue) del paziente, combinata con la trombina (un enzima che favorisce la coagulazione del sangue). Si forma, così, una sostanza gelatinosa che aderisce all’omento e mantiene ben salde le cellule pancreatiche. Il gel viene assorbito in modo graduale dall’organismo, senza danni e senza reazioni immunitarie aggressive contro le cellule beta trapiantate. Nello stesso tempo, si formano nuovi vasi sanguigni che permettono di alimentare queste cellule. Grazie a questo tipo di tecniche i ricercatori sperano di poter ridurre, in futuro, l’uso di farmaci immunosoppressivi.

Data ultimo aggiornamento 24 giugno 2016
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Vedi anche: • Diabete, la corsa per il trapianto "perfetto"


Tags: diabete di tipo 1, ospedale Niguarda, pancreas, tecniche avanzate, trapianto



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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