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Le donne tibetane hanno figli pur vivendo
in carenza d’ossigeno: ecco come ci riescono

Come riescono le donne che vivono nell’altopiano himalayano a concepire e partorire figli, nonostante il minore contenuto di ossigeno dell’aria? La domanda se la sono posta i ricercatori della Case Western Reserve School of Medicine di Cleveland (Ohio), che sono andati sul campo, nella zona del Mustang napalese, per studiare nel dettaglio 416 donne tibetane che vivono a un’altitudine superiore ai 3.500 metri, e che al momento dell’indagine avevano tra i 46 e gli 86 anni. Come riportato su PNAS, di tutte i ricercatori hanno studiato attentamente la salute, il numero di figli avuti, le abitudini e il genoma, e hanno così scoperto che coloro che avevano avuto il maggior numero di figli erano anche quelle che avevano un genoma particolare. In esso erano infatti presenti alcune sequenze ereditate dagli ominidi denisoviani, che abitavano le steppe siberiane circa 50.000 anni fa, e che da lì erano migrati fino alla zona del Tibet. In particolare, un gene chiamato EPAS1 sembra essere la chiave del successo riproduttivo, perché permette alla proteina che trasporta l’ossigeno nel sangue, l’emoglobina, di essere più efficiente. La sua concentrazione non aumenta, e questo assicura che il sangue non diventi troppo viscoso (fatto che potrebbe aumentare il rischio di trombi), ma la sua capacità di legare ossigeno sì: per questo le donne riescono a portare avanti una gravidanza senza particolari problemi. L’ossigenazione del feto è garantita anche se l’aria contiene meno ossigeno. L’evoluzione ha reso le denisovane prima e le tibetane poi capaci di riprodursi anche in un ambiente molto ostile. Da questo punto di vista, studiare le donne del Mustang è come osservare l’evoluzione in azione. Infine, la scoperta che potrebbe essere utile anche ad altre latitudini, per le donne che hanno difficoltà a portare a termine la gravidanza associate a difetti della coagulazione, o che vivono in condizioni di scarsa ossigenazione.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 30 ottobre 2024
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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