ONCOLOGIA
Tumori, meno screening e cure spesso inadeguate per i pazienti LGBTIQ+

di Valeria Camia
Con un accesso ridotto ai programmi di prevenzione e diagnosi precoce, le persone della comunità LGBTIQ+ (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, intersessuali, queer e altre ancora) ricevono cure mediamente meno efficaci contro il cancro, anche perché la malattia viene diagnosticata spesso in ritardo e lascia quindi segni più profondi sul corpo e nella mente. I dati disponibili sono pochi, ma allarmanti: secondo il rapporto della European Cancer Organisation (ECO), Cancer Care for the LGBTIQ+ Community: Addressing Inequalities, pubblicato il 20 giugno 2024, solo circa il 10% delle persone LGBTIQ+ ha effettuato una mammografia nell’ultimo anno, rispetto al 36% della popolazione generale. Inoltre, solo il 27% si è sottoposto a un Pap test nei 12 mesi precedenti all’indagine, contro il 36% delle persone non LGBTIQ+. Queste disparità non riflettono solo una carenza di accesso ai servizi, ma mettono in luce anche una significativa mancanza di attenzione, sostegno e inclusione.
Ne è convinto Stewart O’Callaghan, che non si identifica con i pronomi “he/him” o “she/her”, ma preferisce they/them. Stewart è l’award-winning Founder e CEO di OUTpatients, l’organizzazione non profit britannica dedicata al cancro nella comunità LGBTIQ+, ed è anche un paziente oncologico. La sua storia e battaglia iniziano proprio con la diagnosi di cancro. A Berlino, nel 2016, all’età di 28 anni, la vita di Stewart cambia drasticamente quando scopre di avere una forma di leucemia mieloide cronica (LMC): «Colpisce soprattutto le persone sopra i cinquant’anni - spiega. - Mi hanno detto che ero fortunato perché era stata scoperta prima che progredisse troppo e perché ero giovane».
Dalla Germania Stewart torna “a casa”, nel Regno Unito, solo per scoprire un vuoto nel supporto che il sistema sanitario NHS offriva alle persone la cui identità sessuale, orientamento sessuale o identità di genere differisce dalle norme eterosessuali e cisgender tradizionali. «Oltre a vedere la mia vita sgretolarsi in tanti modi - racconta - avevo anche bisogno di risposte specifiche a domande sulla mia malattia e di supporto legato alla mia identità, e pensavo che altre persone nella comunità LGBTIQ+ potessero vivere la stessa esperienza. Per esempio: cosa succede a chi assume PrEP per l’HIV (la terapia preventiva nel caso di rapporti sessuali a rischio, ndr) durante il trattamento oncologico? Quali opzioni di fertilità sono disponibili? Che supporto viene offerto ai partner? E alla salute sessuale? E il sistema oncologico come supporta persone trans e non binarie? Così - continua Stewart - ho fondato OUTpatients, dopo essermi reso conto di avere davvero bisogno di parlare con altre persone LGBTIQ+ dell’esperienza del cancro, per trasformare la frustrazione in azione».
Negli Stati Uniti alcuni dati sanitari sulle persone LGBTIQ+ esistono, e il quadro che ne esce è preoccupante. Uno studio su larga scala condotto dal centro di ricerca “Moffitt” (H. Lee Moffitt Cancer Center and Research Institute) in Florida ha coinvolto oltre 118mila pazienti tra il 2016 e il 2023 e ha mostrato che chi si identifica come minoranza sessuale, o di genere, ha maggiori bisogni psicosociali, come problemi di trasporto, difficoltà finanziarie, assistenza di familiari e preoccupazioni che potrebbero interferire con l’accesso alle cure.
In Europa i registri dei tumori generalmente non raccolgono dati sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, per un’applicazione rigida delle norme sulla privacy. «Ma senza queste informazioni - ha detto Stewart all’European Cancer Summit di Bruxelles, lo scorso 19 e 20 novembre - il sistema sanitario tratta le persone LGBTIQ+ come fantasmi statistici. Se non registriamo chi sono, non possiamo proteggerle in modo adeguato». La mancanza di dati non è solo un vuoto amministrativo: può fare la differenza tra la vita e la morte.
Partiamo da stile di vita e prevenzione. Quando ci si rivolge alla comunità LGBTIQ+ è fondamentale considerare anche il peso emotivo e sociale di questi messaggi. «Si parla di fattori di rischio modificabili - spiega Stewart - ma dobbiamo ricordare che, per le comunità queer, certi messaggi possono richiamare decenni di stigma legato alla salute sessuale, all’HIV e alla marginalizzazione. Sensibilizzare sui comportamenti che aumentano il rischio di cancro può dare l’impressione di voler affrontare qualcosa di profondamente personale, che non riguarda solo i comportamenti in sé, ma anche l’identità e il senso di appartenenza. Spesso, la percezione del rischio porta con sé vergogna o connotazioni negative».
Tra questi fattori c’è anche la discriminazione. «Se una persona pensa di essere discriminata, in molti casi evita, semplicemente, lo screening» - avverte Stewart. Basta una sola brutta esperienza per scoraggiare un paziente. Peggio ancora, se quell’esperienza viene condivisa e amplificata, altri pazienti smettono di presentarsi in clinica. Un esempio emblematico è il “mito” secondo cui le donne lesbiche non avrebbero bisogno del Pap test, perché non hanno rapporti sessuali con uomini. È falso, scientificamente errato, ma ancora profondamente radicato. Secondo le organizzazioni europee per il cancro, molte persone LGBTIQ+ continuano a interiorizzare questa idea.
Un altro problema importante riguarda i protocolli medici. Secondo Stewart, è necessario ripensare gli inviti alle visite, le linee guida per la prevenzione e le pratiche cliniche: «La complessità dell’identità di genere - dice - raramente entra nella pianificazione del trattamento». Dalla ricostruzione del seno proposta “di default”, senza considerare sessualità, immagine corporea o relazioni, alle operazioni chirurgiche e ai trattamenti ormonali che non tengono conto di percorsi di cura rispettosi delle esigenze personali, fino alle campagne di prevenzione (come quelle contro il fumo) che raramente considerano le esperienze LGBTIQ+,come gli alti tassi di tabagismo legati allo stress da discriminazione: tutto ciò mostra quanto le decisioni terapeutiche standard ignorino l’identità di genere.
LE CONSEGUENZE SUL RECUPERO FISICO E PSICOLOGICO - Eppure, il divario tra protocollo medico e identità personale influisce profondamente sul recupero fisico, emotivo e relazionale. Basti pensare che i partner delle persone LGBTIQ+ vengono spesso identificati come amici o “caregiver” (persone che si prendono cura delle persone malate). «Durante la pandemia di Covid-19, in particolare - continua Stewart - le restrizioni hanno peggiorato la situazione: molti partner sono stati esclusi dalle consultazioni mediche, e le reti di supporto si sono assottigliate ulteriormente. Il risultato è stato un isolamento più marcato delle persone LGBTIQ+ malate di cancro».
GRUPPI DI "BUONA VOLONTÀ" - Il peso dell’inclusione raramente ricade sulle istituzioni. Spesso grava su piccoli gruppi di professionisti “auto-selezionati” (medici, infermieri e altri) che, con buona volontà e senso di abnegazione, cercano di organizzarsi per sopperire ai punti critici dell’assistenza. «Si crea una sorta di lotteria geografica - avverte Stewart - e la qualità del supporto dipende da quanto i clinici abbiano personalmente deciso di cercare una formazione aggiuntiva».
Forse ciò che frustra di più Stewart è quanto poco di questo lavoro sia entrato nei corsi universitari. La maggior parte delle scuole e dei programmi di formazione medica non richiede insegnamenti sulla cura del cancro per pazienti LGBTIQ+. Quando presenti, arrivano come indicazioni stereotipate, ridotte, e spesso rafforzano idee preconcette, a partire dal fatto che, nei disegni di accompagnamento, è sempre raffigurato un uomo con HIV (quasi mai una donna), nota Stewart con ironia. E quando i pazienti percepiscono nervosismo o ignoranza, la fiducia si rompe.
Per questo Stewart viaggia nelle università del Regno Unito, tenendo conferenze e sfidando gli studenti a pensare oltre gli stereotipi: dimensione dello speculum, atrofia vaginale legata al testosterone, anatomia che non rientra nei modelli di genere tradizionali. «A questo punto - chiede - se invitiamo una persona allo screening, lo facciamo in base al genere o all’anatomia?». La vera “montagna da scalare”, in ogni caso, sono i clinici senior, che resistono alla formazione aggiuntiva.
La Strategia per l’Uguaglianza LGBTIQ+ (2026–2030) della Commissione Europea potrebbe essere un punto di svolta. Ma solo se risorse e ascolto dei pazienti diventeranno priorità. L’European Cancer Organisation sta raccogliendo dati sul cancro tra le persone LGBTIQ+, ma per Stewart non è solo una questione di numeri: è una questione di dignità, e di equità.
Data ultimo aggiornamento 31 dicembre 2025
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