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Finalmente qualcosa si muove
sul fronte delle terapie SLA

Siamo in un momento importante per la cura della Sclerosi Laterale Amiotrofica o SLA,  una malattia neurodegenerativa che porta alla progressiva distruzione dei motoneuroni, cioè delle cellule nervose che comandano i movimenti dei muscoli. Ad oggi non esistono terapie in grado di modificare in modo significativo il decorso della malattia, anche se la comunità scientifica è da anni attivamente impegnata nella ricerca sia pre-clinica che clinica. Ma mai, prima d’ora, ci si era trovati in una fase così significativa per il raggiungimento dell’ obiettivo finale. 
Numerose sono infatti le terapie in fase di sperimentazione per ridurre la progressione della malattia e per trattare la patologia partendo dalle sue basi genetiche, come ci ha spiegato il professor Vincenzo Silani, una delle massime autorità internazionali in materia di SLA, professore ordinario di neurologia e direttore della Scuola di specializzazione in neurologia dell’Università degli Studi di Milano, nonché direttore dell’Unità operativa di neurologia all’Istituto Auxologico Italiano. 

Vincenzo Silani

Dunque, professore, facciamo il punto...
«Numerosi sono i tentativi terapeutici in atto - spiega Silani - a cominciare dalla combinazione di due molecole, il fenilbutirrato di sodio e il taurursodiol. Come emerso da uno studio, CENTAUR, pubblicato sul New England Journal of Medicine nel settembre 2020, la terapia denominata AMX0035, ossia il farmaco sperimentale a base di fenilbutirrato di sodio e taurursodiol, si è rivelata un trattamento efficace per ridurre la progressione della malattia.
I dati emersi da questo studio, la cui prima firmataria è la ricercatrice italiana Sabrina Paganoni, sono infatti apparsi molto incoraggianti, al punto che hanno avuto un enorme impatto a livello internazionale e hanno determinato l’avvio di un nuovo trial tra Europa e Stati Uniti. Esiste infatti una piattaforma europea, chiamata TRICALS, di cui l’Istituto Auxologico fa parte, che duplica il network di ricerca americano. Attualmente TRICALS è la più grande iniziativa di studio per trovare una cura per la SLA. Quarantaquattro dei migliori centri di ricerca in 15 Paesi collaborano con organizzazioni dei pazienti e organizzazioni di raccolta fondi per raggiungere un unico obiettivo comune: trovare trattamenti efficaci per la SLA. La sperimentazione in fase 3 con fenilbutirrato di sodio e taurursodiol verrà avviata entro la fine di agosto e il mese di settembre”».  

Oltre alla terapia AMX0035, quali sono gli altri tentativi terapeutici più significativi? 
«Solo presso l’Istituto Auxologico Italiano sono sette i tentativi terapeutici in corso. Si tratta di varie molecole in grado di agire sui diversi potenziali meccanismi patogeni della SLA, come, ad esempio, le componenti immunologiche. Tra i vari trial ve n’è uno particolarmente innovativo che si basa sull’elettroceutica, ossia sulla stimolazione magnetica della corteccia cerebrale tramite uno speciale caschetto dotato di magnete. Il progetto pilota è frutto della collaborazione di Auxologico  con l’Università Campus Bio-Medico di Roma e con il sostegno della Fondazione Nicola Irti per le opere di carità e di cultura.
Lo studio, ora in fase pseudo conclusiva (si stima che l’ analisi dei dati avverrà entro la fine del 2021) ha previsto il reclutamento di 40 pazienti affetti da SLA, di età compresa tra i 18 e i 75 anni, con esordio di malattia da meno di 24 mesi e un’evidenza clinica di progressione rapida, ma con una preservata funzione respiratoria. Lo studio ha previsto la suddivisione in due gruppi da 20 persone ciascuno: il primo, trattato con la stimolazione magnetica statica reale, il secondo con una non stimolazione (placebo). La sperimentazione della durata di 6 mesi avviene presso il domicilio del paziente».

E per quanto riguarda la terapia genica, ossia la terapia di precisione in grado di trattare una patologia mirando direttamente alle sue basi genetiche, vi sono novità? 
«Il momento è favorevole a questo tipo di terapia per la SLA, anche grazie alla scoperta di 37 geni patogenetici delle malattia (uno studio a cui abbiamo attivamente partecipato): dunque è oggi possibile, almeno sul piano teorico, ipotizzare una terapia personalizzata utile a correggere la genetica dei pazienti affetti. Nello specifico, la terapia genica per i pazienti con mutazione del gene SOD1 - che rappresenta una fetta (il 30 per cento) delle SLA di origine familiare (queste forme della malattia sono, a loro volta, il 10 per cento del totale) - è in una fase molto avanzata di studio (fase 3) e viene ora proposta, anche prima della fine del trial, ai pazienti con progressione rapida di malattia. In termine tecnico, si tratta del Trial Tofersen, Biogen, con oligonucleotide antisenso (ASO), che agisce selettivamente sul driver genetico della malattia.
È attivo, ma in fase preliminare, anche uno studio (trial clinico di fase 1) per i pazienti con mutazione C9orf72, il gene più frequente nelle forme familiari, sempre condotto dalla Biogen. Si tratta di una sperimentazione molto importante e promettente, perché potrebbe impattare in maniera significativa anche sulla cura della demenza fronte-temporali. Si tratta dunque ora di una alleanza terapeutica di due mondi portatori di due diverse patologie».

C’è qualche altro ambito di ricerca importante da segnalare, professore?
«Sì, quello relativo alle cellule staminali, che costituiscono un importante settore di studio per il trattamento della SLA. Anche se non hanno ancora raggiunto un obiettivo convincente, costituiscono comunque un interessante approccio e un fronte aperto di ricerca. Ne è un esempio la sperimentazione “Brainstorm”, ideata dall’azienda BrainStorm Cellular Therapeutics (Israele), che si basa sulla ripetuta somministrazione intratecale (cioè direttamente nel liquido cefalorachidiano, che avvolge il cervello e il midollo spinale, ndr) di cellule mesenchimali modificate, secondo la tecnica denominata NurOwn®, affinché rilascino fattori protettivi per i motoneuroni. Le cellule staminali mesenchimali vengono raccolte attraverso un prelievo di midollo osseo dal paziente stesso e iniettate nel liquido cefalo-rachidiano (il sottile strato di liquido che circonda il crvello e il midollo spinale, ndr). I risultati finali di questo approccio terapeutico, però, non sono stati soddisfacenti come preliminarmente atteso e nuovi studi saranno necessari».  

 

Data ultimo aggiornamento 2 settembre 2021
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco


Tags: malattie neurodegenerative



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Lungo il fiume, in missione, parte la caccia ai nemici invisibili

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Provate a immaginare il nostro corpo come se fosse una nazione... Una nazione delimitata da lunghi confini, con poliziotti e soldati dappertutto, posti di blocco, caserme, per cercare di mantenere l’ordine pubblico e allontanare i nemici, perennemente in agguato.

Le acque dei numerosissimi fiumi e canali (i vasi sanguigni) vengono sorvegliate giorno e notte da un poderoso sistema di sicurezza. Ma non è facile mantenere l’ordine in una nazione che ha molti miliardi di abitanti, e altrettanti nemici e clandestini.

Le comunicazioni avvengono attraverso una rete di sottili cavi elettrici, oppure tramite valigette (gli ormoni e molti altri tipi di molecole), che vengono liberate nei corsi d’acqua. Ogni valigetta possiede una serie di codici riservati solo al destinatario, che così è in grado di riconoscerla e prelevarla appena la “incrocia”.

Le valigette possono contenere segnali d’allarme lanciati dalle pattuglie che stanno perlustrando i vari distretti dell’organismo e hanno bisogno di rinforzi. Fra i primi ad accorrere sono, di norma, gli agenti del reparto Mangia-Nemici (i monociti). Grazie alle istruzioni contenute nelle valigette, identificano all’istante il luogo da cui è partito l’allarme ed entrano aprendo una breccia nelle pareti.

Quando si trovano davanti ai nemici, i monociti si trasformano, accentuando la loro aggressività e la loro potenza. Diventano, così, agenti Grande-Bocca (i macrofagi). Come in un film di fantascienza, dal loro corpo spuntano prolungamenti che permettono di avvolgere gli avversari e catturarli rapidamente, dopo avere controllato i passaporti.

I nemici vengono inghiottiti, letteralmente, e chiusi in una capsula, all’interno del corpo degli agenti: una sorta di “camera della morte”. A questo punto scatta la loro uccisione, tramite liquidi corrosivi e digestivi, che li sciolgono.

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